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Disgregazione. Nicola Zingaretti sceglie un eufemismo per definire il rischio a cui va incontro il Movimento 5 Stelle. Ma è solo una cortesia “diplomatica” per non utilizzare il termine corretto, ormai sdoganato persino da alcuni parlamentari pentastellati: «Scissione».
Perché quello in corso tra i grillini non è più un semplice confronto precongressuale tra correnti, ma una vera e propria contrapposizione tra anime sempre più inconciliabili. Le varie sfumature di “filo dem”, i sostenitori della terza via e nostalgici del Carroccio ormai si fronteggiano quotidianamente per contendersi l’identità futura del M5S. E il rinvio degli stati generali a data da destinarsi ( presumibilmente alla fine di aprile) per evitare strappi potrebbe non essere stata una buona idea. Perché in primavera il Movimento dovrebbe aver già compiuto delle scelte di campo. Tra la fine di maggio e l’inizio di giugno, infatti, gli elettori saranno chiamati a rinnovare i consigli regionali di Veneto, Toscana, Campania, Puglia, Marche e Liguria. Per avviare la campagna elettorale, il partito di Grillo dovrà dunque decidere come correre in ogni singola regione ben prima del congresso. Significa che la scelta dovrà passare soprattutto per le mani di Vito Crimi - capo politico sì, ma reggente - senza una vera legittimazione dal basso. A fare da sfondo alla contesa: i costanti tracolli elettorali e l’incubo ( alimentato dai sondaggi) di scendere sotto le due cifre a livello nazionale. In questo clima, gli Stati generali rischiano di trasformarsi nella formalizzazione del divorzio pentastellato.
Del resto, era stato uno come Max Bugani, fino a poche settimane fa il collaboratore più fidato di Davide Casaleggio in Rousseau, a sentenziare dopo il tonfo emiliano: «Talvolta un matrimonio può finire, ma senza odi e rancori. Andare avanti litigando tutti i giorni non fa bene ai figli e alla famiglia». Tradotto: meglio separarsi, a volte, per evitare danni peggiori. Perché la scissione è già in atto. E non solo tra i sostenitori dell’alleanza organi col Pd - Fico, D’Inca e Patuanelli - e i dimaiani. C’è anche l’ala romana, guidata da Taverna e Lombardi, che spinge per un posizionamento progressista del Movimento e nonostante le differenze stringe un patto di ferro col Presidente della Camera. Di Maio, dal canto suo, reagisce convocando la piazza a difesa del taglio dei vitalizi contro il suo stesso governo, una mossa che mette in serio imbarazzo Conte e alle strette Zingaretti.
Senza leader e senza identità, il Movimento è costretto a restare nel gruppo dei non iscritti persino in Europa, dove i Verdi attendono un abiura convinta al sovranismo prima di aprire le porte. È un Movimento già scisso nei territori, quello in cui una consigliera di Pesaro entra nella Giunta del Pd senza chiedere l’autorizzazione ai vertici; o quello in cui gli attivisti calabresi pretendono l’espulsione del presidente dell’Antimafia, Nicola Morra, per aver sabotato la campagna elettorale di Francesco Aiello. Per non parlare dei grillini laziali, dove la capogruppo Roberta Lombardi, pioniera del dialogo con il Pd in Regione, milita in un partito molto diverso da quello del collega Davide Barillari, asserragliato sulle posizioni del V- Day.
Così come avviene anche in Liguria, in Sicilia e in Campania, solo per citare le fratture più eclatanti. La disgregazione è già nei fatti, e gli Stati generali difficilmente riusciranno a compattare anime così diverse. E il ritorno di Alessandro Di Battista, annunciato da Manlio Di Stefano ( «dice che se il suo messaggio è ancora ritenuto utile è sempre disposto a dare una mano al Movimento» ) non potrà far altro che irrigidire le posizioni in campo.