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«No, non è come il 1993. Quelli di Roma e Milano sono solo due casi che riguardano il passato. Arrivano ora perché purtroppo questi sono i tempi della giustizia. Quindi, io non vedo analogie con quello che si determinò con Tangentopoli». Così risponde Pietro Grasso, presidente del Senato, seconda carica dello Stato, a margine della cerimonia di auguri natalizi con la stampa parlamentare alle domande che gli fa Il Dubbio sulle possibili analogie tra quanto accadde nel traumatico passaggio tra Prima e cosiddetta seconda Repubblica, alla luce della bufera giudiziaria abbattutasi sui Comuni di Roma e di Milano. Grasso sembra quindi avvalorare l’idea che non siamo a un passaggio d’epoca che potrebbe portare da qui a pochi mesi per forza di necessità a elezioni anticipate. E anche dal suo discorso si desume che guardi a un orizzonte un po’ più lungo rispetto al toto- date sulla fine del governo Gentiloni e il ritorno alle urne che invece l’ex premier Matteo Renzi all’ultima direzione del Pd definì “imminente”. Non nomina mai Renzi, che domani all’Assemblea del Pd sulle elezioni a breve dovrebbe rilanciare, ma nomina il Capo dello Stato per quattro o cinque volte. E comunque tutto il suo discorso suona anche come una pesante critica a Renzi, oltre che a Lega e Cinque Stelle, insomma a tutti quelli che vorrebbero andare a votare il prima possibile.
Avverte Grasso che andare al voto subito sarebbe “irresponsabile” e “controproducente”. Spiega rispondendo alle domande di Sergio Amici, presidente della stampa parlamentare: «Non posso immaginare che a decidere sulla durata della Legislatura influiscano temi estranei al bene del Paese e che riguardino le singole velleità dei leader, partiti e movimenti, o addirittura la paura di altri appuntamenti referendari che sembrano profilarsi nei prossimi mesi. Sarebbe irresponsabile e controproducente».
Il destinatario di quest’ultimo passaggio sembra proprio il ministro Poletti che, svelando di fatto il piano renziano, aveva detto: «Al voto per evitare il referendum sul Jobs act». E a questo proposito Grasso bocciando «l’uso indiscriminato dei voucher», lascia capire che il governo Gentiloni dovrebbe apportare modifiche alla riforma renziana. Cosa che però il premier ha già detto di non voler fare, in ossequio a Renzi. Ma il presi- dente del Senato sembra ancora prendersela anche con l’ex premier quando dice che «il dibattito politico non può essere ridotto all’arena per lo scontro di personalità ipertrofiche». Dice che «nessuno si può appropriare dei Sì e dei No». E, richiamando il disagio sociale dei giovani, delle fasce di povertà, si toglie un sassolino dalla scarpa quando ricorda che nei mesi della campagna referendaria «importanti provvedimenti sono rimasti bloccati in parlamento». Quindi «sarebbe grave se dopo essere rimasti in sospeso per mesi dovessero rimanere ancora fermi, fino alla fine della legislatura, per mero calcolo elettorale».
Ancora più esplicito contro le elezioni a breve: «Non vorrei che si passasse senza soluzione di continuità dalla campagna referendaria a quella elettorale». Ricorda il percorso indicato da Sergio Mattarella che prevede di «omogeneizzare» le leggi elettorali di Camera e Senato. Grasso elenca poi gli impegni internazionali che attendono l’Italia anche oltre il G7 di fine maggio a Taormina. Parla di «revisione» dei regolamenti par- lamentari e della «piena realizzazione del ruolo unico dei dipendenti del parlamento».
Cose che per essere realizzate forse avrebbero bisogno di una legislatura che andasse persino oltre la sua scadenza naturale fissata nel 2018. Insomma, l’esatto contrario di quello che l’ex premier Renzi vorrebbe. Mentre impazza il turbinio del totodate elettorali ( tra aprile e giugno?) e anche il toto- scelte che Renzi annuncerà domani all’Assemblea del Pd a Roma, sembra che il Pd sia in affanno per avere nella sua Assemblea ( dove i membri sono un po’ più di mille) un numero legale fissato in circa 600 partecipanti per poter deliberare sulle decisioni che il leader sottoporrà al voto dei partecipanti. Le ultime del borsino delle intenzioni del segretario del Pd sarebbero che non vorrebbe più il congresso anticipato perché richiederebbe tempi più lunghi che allontanerebbero le elezioni. E quindi sarebbe più propenso a virare per primarie di coalizione a marzo se non a febbraio. Se primarie di coalizione saranno, sarebbero con la sinistra arancione di Pisapia, quel modello Milano che già fece vincere Sala ora però finito nell’occhio del ciclone giudiziario. E se l’Assemblea del Pd finisse solo con una discussione con il rilancio da parte di Renzi sugli “altri mille giorni” a proposito dei quali l’ex premier ha già chiesto consiglio agli elettori su Facebook? Ad alcuni ha già risposto: «Si perde la battaglia ma non la voglia di cambiare l’Italia. E per decenni non si parlerà più di riforme costituzionali» .