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Non ci sta a «stare appeso», il premier Giuseppe Conte. Specularmente, ripete le stesse parole dell’uomo forte del Pd, Goffredo Bettini, che ha avvertito: «non possiamo stare sospesi ogni giorno a Di Maio e Renzi».
L’accordo tra Conte - sempre più forte nel suo gioco individuale - e il Pd è dunque siglato senza nemmeno aspettare il sì d’obbligo del Movimento 5 Stelle: passate le doglie della manovra economica, serve un summit dell’Esecutivo per ritararne la linea, gli obiettivi e la strategia. In pratica, ciò che non è stato fatto nelle convulse fasi in cui il Conte 2 è nato.
Le agende sul tavolo sono almeno tre: quella del premier, a cui Bettini ha riconosciuto la legittimità a presentare i propri punti ( e già basterebbe questo a notare il diverso peso politico dell’avvocato rispetto a quello di mero “esecutore del contratto” che aveva nel governo gialloverde); quella del Pd alle prese con il brainstorming della Costituente delle idee e sollecitato anche dalle consultazioni regionali e quella dei 5 Stelle. Proprio quest’ultima, dati i recenti testacoda del movimento, sembra la più opaca.
Gli appunti del presidente del Consiglio sono fitti e ordinati: dopo la fase dell’emergenza vorrebbe far scattare quella delle riforme strutturali «per cambiare davvero il Paese» e fissa l’orizzonte in un ottimistico 2023. In realtà, la riforma su cui Conte vorrebbe scrivere il suo nome ( e l’unica di cui ha chiari i connotati) è una sola: «Il taglio delle tasse», con una «decisa riforma dell’irpef e della giustizia tributaria». A corollario, elenca «la riduzione dei tempi dei processi penali e civili», «il rilancio degli investimenti» e «il sostegno alle piccole e medie imprese», la «razionalizzazione delle risorse pubbliche», «la semplificazione normativa e la sburocratizzazione» e «la digitalizzazione della pubblica amministrazione».
Per contro il Partito Democratico risponde con quella che Nicola Zingaretti ha ribattezzato “Agenda 2020”. Parole d’ordine: lavoro, new green deal, investimenti in scuola, università e sapere. A una prima occhiata, un elenco di priorità compatibile ma non sovrapponibile a quello del premier. Accanto a queste, anche i dem ribadiscono la necessità di «rilanciare gli investimenti, per semplificare lo Stato, per sostenere la rivoluzione digitale, per le infrastrutture utili», avvicinandosi alla ricetta- Conte.
Meno lucido, invece, è il Movimento 5 Stelle in crisi di leadership e idee. Luigi Di Maio, diviso nella doppia veste di ministro degli Esteri e capo del movimento, non ha ancora elencato un decalogo pur abbozzato di misure cardine per il suo partito. Nei mesi si è limitato, di fatto, a salvaguardare quanto prodotto dal governo precedente ( provvedimenti- bandiera della Lega compresi): «il reddito di cittadinanza e Quota 100 non si toccano», «lo stop della prescrizione entra in vigore così com’è», continua a ripetere, dopo aver incassato il taglio dei parlamentari ponendolo come condizione per la sopravvivenza dell’Esecutivo.
Ora, anche lui ha confermato che a gennaio «ci coordineremo tra le forze di maggioranza per delineare la road map della nuova agenda di governo», ma è tornato a utilizzare una parola che i dem hanno sempre espressamente rifiutato: «contratto di governo». «È arrivato il momento di mettere nero su bianco tempi e temi» con un «contratto di governo», ha detto senza entrare nel merito delle sue priorità.
Eppure, proprio sul concetto di contratto probabilmente si tornerà a battagliare: Zingaretti ha ripetuto che per un governo di legislatura non va bene un contratto che prevede la giustapposizione di provvedimenti anche in contraddizione tra di loro con il vincolo per tutti di votare quelle altrui. Perchè il Conte 2 abbia speranza di vedere non tanto il 2023 ma almeno la fine del 2020, per i dem serve una direzione comune e condivisa verso cui portare il paese.
E la questione potrebbe essere complicata da un ulteriore fattore, lo stesso ricordato da Bettini. A tenere in perenne bilico il governo non è solo il Movimento, ma anche il malandrino di Rignano. Il senatore semplice Matteo Renzi, coi suoi parlamentari di Italia Viva, dovrà trovare posto al tavolo di governo e può sperare di dettare almeno qualche condizione.
Formalmente, l’agenda non sembra troppo distante da quella del Pd, fatta salva una linea decisamente più intransigente sul fronte della giustizia ( a partire dal no allo stop della prescrizione). In concreto, però, tutti gli invitati al tavolo sanno che, se c’è una cosa in cui Renzi eccelle, è sparigliare le carte. E il sospetto è che il vero tema di confronto di cui nessuno parla in modo chiaro ma a cui tutti alludono è uno solo: la formulazione della futura legge elettorale. Nessuno degli attori in campo è in grado di dire oggi quale sia il sistema più favorevole: Conte ha parlato di sistema tedesco, il Pd di quello spagnolo ricevendo il no di Renzi. I conti, però, dopo quelli della manovra, saranno quelli delle proieziioni elettorali.