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Il 25 luglio non è solo una data storica. E’ un modo di essere e di intendere la politica in Italia. E’ un luogo frequentato infinite volte, nell’eterna ripetizione del modello originale. Il consenso unanime, conformista, a volte dettato da convinzione ma spesso da calcoli, convenienze, paure. Poi la sconfitta, la prima volte tremenda e sanguinosa, tra le nevi russe, in seguito, per fortuna, sempre più stilizzata in quelle guerre incruente che sono i giochi politici, le elezioni. Infine il rovesciamento improvviso, la defezione in massa, l’abbattimento del leader e delle sue statue.
Il Gran Consiglio, in Italia, si riunisce periodicamente: ogni volta che un capo considerato intoccabile sino a un attimo prima viene trascinato in basso dalla sconfitta. Si riunirà di nuovo lunedì prossimo, occasione, ultima ma solo in ordine di tempo, la Direzione del Pd. Il bersaglio non ci sarà. Matteo Renzi diserterà assise destinate altrimenti a trasformarsi in un processo. Ci saranno i suoi ufficiali e i suoi alleati. Molti lo hanno già mollato o si accingono a farlo. Qualcuno gli resterà fedele in uno scontro che, se scoppierà davvero, non prevede né vinti né vincitori. La reazione immediata e durissima dell’ex capo dei senatori Luigi Zanda dopo l’ambiguo annuncio delle dimissioni posticipate di Renzi non è stato solo l’avvio di una battaglia. E’ stata anche un’esplosione, uno sbotto, come quello seguito a breve di Ugo Sposetti. Almeno a partire dal referendum del 4 dicembre 2016 una parte crescente del Pd ha vissuto Renzi come una costrizione, senza tuttavia mai avere il coraggio di opporglisi apertamente se non nelle recriminazioni.
E’ sempre così. I 25 luglio, quando arrivano, portano alla luce malumori, dissensi, ire represse che si agitavano da ben prima della sconfitta finale, fanno emergere distanze, disaccordi e spesso un’astiosità anche personale tenute a freno solo dai rapporti di forza sfavorevoli. Matteo Renzi, che da lunedì non sarà più segretario del Pd dopo un regno durato 4 anni e tre mesi, è stato sovrano incontrastato in nome dei successi ottenuti e in particolare di quel 40% strappato alla prima prova elettorale affrontata da segretario e premier, il 25 maggio 2014. Dopo la non- vittoria del 2013 Renzi era né più né meno che il salvatore della patria. Gli esponenti della minoranza che avevano mantenuto ruoli rilevanti anche dopo la vittoria renziana nelle primarie di dicembre, come lo stesso Zanda e l’allora presidente della commissione Affari costituzionali del Senato Anna Finocchiaro, erano in quella fase i più zelanti nell’uniformarsi agli ordini del capo, come in politica capita spesso a chi deve farsi perdonare schieramenti ostili passati. I principali alleati del nuovo leader, la corrente guidata da Dario Franceschini, subivano quasi di buon grado i modi ruvidi e le tendenze accentratrici del segretario- premier e del ristrettissimo gruppo che formava il suo stato maggiore. La maggioranza dei parlamentari, eletti nell’epoca precedente e dunque intimamente riottosi, non andavano al di là di timidi mugugni puntualmente rientranti al momento dei voti.
Neppure la sconfitta, secca e che avrebbe dovuto risuonare come un allarme rosso, nelle comunali del 2016 aveva scalfito seriamente la presa di Renzi sul suo partito. «Ci rifaremo col referendum», era la parola d’ordine fatta partire dal Nazareno e ripresa sia da media sempre compiacenti sia dagli inte- ri ranghi del partito. Solo con la disastrosa sconfitta del 4 dicembre le cose sono cambiate.
Tra un governo quasi identico al suo, ma guidato da un altro e sia pur fedelissimo premier come Paolo Gentiloni, e il segretario le tensioni son state continue anche se quasi sempre camuffate. Quando Renzi, dopo la batosta del 4 marzo, se l’è presa con chi gli ha impedito di votare nel 2017, quando secondo i suoi calcoli avrebbe incassato i voti del sì al referendum, alludeva certamente al capo dello Stato ma non solo a lui. L’intera squadra governativa, da Gentiloni, in fondo il più fedele di tutti, a Dario Franceschini, l’alleato sempre meno convinto di aver fatto la scelta giusta, sino a Graziano Delrio, amico e renziano della prima ora, ha frenato, d’intesa con il Colle, la corsa alle urne su cui puntava il capo.
La realtà è che una gran parte del Pd aspettava le elezioni del 4 marzo per avviare la resa dei conti: l’opposizione di Orlando ed Emiliano, gli ex oppositori sempre meno pronti a farsi maltrattare come Zanda e Finocchiaro, i lettiani e gli ulivisti, gli alleati scontenti come Franceschini, i renziani più lucidi e indipendenti esclusi per questo dalla cerchia degli intimi. Solo che nessuno si aspettava una sconfitta di queste dimensioni e il conseguente precipitare di una resa dei conti contenuta nella seduta finale del gran consiglio.
Al prossimo congresso il Pd dovrà decidere non chi nominare segretario ma di quel dna dotarsi in futuro: Calenda e Zingaretti, i due papabili più accreditati, incarnano visioni entrambe diverse da quella di Renzi ma tra loto antitetiche. Solo che il momento della verità arriverà ben prima del congresso, e si giocherà tutto sulla risoluzione della crisi. Dunque, dimissionario o meno, sarà proprio Renzi a guidare la fazione che si oppone all’accordo con M5S, e che in realtà caldeggia quello con una destra depurata da Salvini. Sarà uno scontro molto più duro di quello congressuale, e non è affatto esagerato mettere nel conto una possibile scissione degli uni o degli altri. In fondo, dopo il 25 luglio capita spesso che arrivi la guerra civile.