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Ieri si sono svolti i funerali di Vincino. L’altro giorno, sul nostro giornale, lo hanno ricordato con arguzia e commozione Sergio Staino e Fulvio Abbate che gli sono stati molto amici. Io non ero amico di Vincino, ci conoscevamo solo di vista.
Però da molti anni lo consideravo uno dei migliori giornalisti italiani. Cosa intendo per uno dei migliori?
Intendo dire che lui era uno dei pochi, direi pochissimi, che con il proprio lavoro faceva informazione. Cioè ci regalava delle notizie, o dei punti di vista, o dei commenti, sempre molto genuini e originali. Credo che Vincino avesse le doti e la personalità per offrire una informazione di qualità alta. Ma non è questo il punto. Non ne faccio una questione di qualità: semplicemente di sostanza. Io penso che i giornalisti dovrebbero fare questo per mestiere: offrire ai lettori ( o ai telespettatori) notizie o critiche che servano a aumentare la conoscenza.
Questa, penso, è la sostanza del giornalismo. Lo possono fare molto bene o meno bene. Oppure possono non farlo per niente e occuparsi di altro: per esempio di combattere in trincea per la loro squadra. Giornalisti con schiena dritta? No, grazie, preferisco Vincino
La maggioranza dei giornalisti italiani, talvolta in modo aperto e spavaldo, talvolta un po’ di nascosto, ha scelto questa seconda strada.
Per fare il giornalista occorre nel senso che è del tutto indispensabile - una sola dote: l’indipendenza. È l’indipendenza che ti da la possibilità di apprendere e diffondere notizie o opinioni in modo totalmente libero. Non condizionato.
Vincino era così. E purtroppo era un personaggio raro. Infatti era considerato un irregolare, uno stravagante. Invece non era affatto irregolare. Fare il giornalismo come lo faceva lui, osservando, giudicando, raccontando, sferzando, offrendo prospettive - lui lo faceva coi disegni, ma non c’è nessuna significativa differenza tra disegni e scrittura, nel nostro mestiere - è la regola. Voglio dire: dovrebbe essere la regola. Gli irregolari sono gli altri: quelli che considerano il giornalismo un lavoro “dipendente” da mettere al servizio di una squadra. La squadra può essere un gruppo eco- nomico, un gruppo politico, un potere pubblico o privato, una fazione. Può essere un partito, può essere la magistratura, può essere Confindustria o il sindacato. Io ho sempre pensato che il giornalista “dipendente” fosse lui il personaggio stravagante, anche se statisticamente appartenente alla maggioranza dei giornalisti. Lui: non Vincino.
Non ho mai apprezzato troppo quelli che si chiamano “i giornalisti con la schiena dritta”. Non solo perché mi è sempre sembrata, questa espressione, un’espressione eccessivamente retorica e molto militaresca ( e io, lo confesso, amo poco sia la retorica sia il militarismo…), ma perchè, se guardate bene, per “giornalista con la schiena dritta” si intende precisamente quel tipo di giornalista che dicevo prima. Cioè uno che non si piega mai alle ragioni degli avversari. Li affronta a viso aperto, li combatte, li sfida, non arretra. Come un vero combattente. Non gliene frega niente delle loro ragioni. E per fare questo resta sempre fedele ai suoi committenti, li rispetta, li serve, li difende con coraggio e sprezzo del pericolo. Non nego affatto che ci sia qualcosa di nobile in questa idea di giornalismo, e che richieda coraggio e forza morale, solo che per me è un’idea del tutto sbagliata. Il giornalista non è chiamato a esprimere valore, coraggio e fedeltà. È chiamato esclusivamente a esprimere verità. Io penso così. Ed è un buon giornalista solo se è disposto a sfidare non solo i suoi nemici, ma anche gli amici suoi. Il giornalista - credo - deve sfuggire alla dote della fedeltà, anzi deve essere sfacciatamente e dichiaratamente infedele. La dote vera è l’infedeltà, la capacità di tradire.
Dico queste cose anche in evidente contraddizione con la mia biografia professionale. Per molti decenni ho lavorato in giornali di partito. All’Unità, a Liberazione. Eppure è stato proprio lì che ho imparato l’enorme importanza dell’indipendenza. È stato quando mi sono trovato a lavorare e a scrivere sfidando la “missione” del mio partito che ho capito e sentito sulla mia pelle cos’è il giornalismo, e perché serve, e perché non può conoscere subordinazioni. Luigi Pintor, che era un giornalista fazioso e comunista, diceva che «un giornale è un giornale è un giornale è un giornale» . Parafrasando Gertrude Stein ( una rosa è una rosa…). Intendeva dire che un giornale vive della sua autonomia, del suo essere giornale e della sua funzione di giornale, prima, molto prima, di essere un mezzo di battaglia politica, o di battaglia culturale. A me non è mai piaciuto molto il manifesto - lo confesso, sapendo di violare uno dei grandi luoghi comuni della sinistra alla quale appartengo - però nessuno può negare che il suo valore fondamentale sia stato l’autonomia. Il manifesto non ha mai avuto padroni, ha risposto solo a se stesso. Il fatto che fosse, e sia, un giornale fazioso non toglie nulla a questa caratteristica di indipendenza e di autonomia che mantiene dalla fondazione. Poi ciascuno come dicevo - può dare un giudizio di qualità: ma la sostanza è quella.
Anche Vincino era fazioso, certo. Molto fazioso. Però lo era in quel suo modo libero, totalmente libero, e acuto, sorprendente, anticonformista, anarchico, avventurista - come diceva lui stesso - che ne faceva un giornalista di primissimo ordine.
Non so se avesse la schiena dritta. Non lo so. Magari era anche un po’ gobbo ( forse perché era molto alto) però valeva assai di più di un piccolo esercito di giornalisti con la schiena dritta. Rimpiazzare un giornalista con la schiena dritta si può. Rimpiazzare Vincino credo che non sia possa.