Giorgia ci crede e lo si avverte a pelle. Più ancora di quel che dice importa come lo dice, tanto più che la tradizionale conferenza stampa fiume di fine anno stavolta ha ben poco di tradizionale: non ci sono bilanci da trarre, si tratta piuttosto di illustrare gli intenti futuri. Non mira a convincere ma a dimostrare che è seria e fa sul serio, e proprio perché in tutta evidenza ci crede ed è davvero quella la sua intenzione centra il bersaglio.

La premier rivendica tutto quel che il suo governo ha fatto finora. Incluso il dl Rave che pure il governo ha dovuto modificare profondamente in corsa: «È il segnale che mi interessa dare: è finita l’Italia che si accanisce contro chi rispetta le regole e fa finta di non vedere chi le viola». Inclusa la difesa del Msi, e va a merito della presidente l’aver evitato escamotages diplomatici e mezzi toni di circostanza: «Ha avuto un ruolo molto importante, traghettare verso la democrazia milioni di italiani sconfitti in guerra. È stato un partito della destra democratica, dell’Italia democratica e repubblicana». Non arretra neppure sul covid, nonostante le sirene d’allarme abbiano ripreso a suonare sempre più forte. Ci si affida a consigli e suggerimenti, alla convinzione ma non alla «costrizione». Sulla guerra è tassativa, fermissima nel sostegno strenuo all’Ucraina. Ma su questo davvero nessuno nutriva il pur minimo dubbio.

Le domande sono tante, ben 45. Alcune risposte sono molto più indicative delle altre. Quella sulla riforma istituzionale, che per una volta non lascia margini di ambiguità: «Il presidenzialismo è un impegno che voglio mantenere. In gennaio incontrerò i leader dell’opposizione che vorranno parlarne, spero tutti. Se ci sarà una vera disponibilità senza scopi dilatori, la riforma potrà farla il Parlamento, altrimenti non escludo una proposta del governo».

La traduzione è secca: se Pd e M5S vogliono mettere mano alla riforma della Costituzione, il metodo sarà la condivisione. Altrimenti il governo andrà avanti lo stesso, anche se il dialogo con il Terzo Polo è già deciso. Ma una sola delle tre forze d’opposizione non basterebbe a istituire una bicamerale. Senza una partecipazione costruttiva delle due principali forze d’opposizione, servirebbe solo a dilazionare, e questo la premier vuole evitarlo a ogni costo.

Anche sul Mes la posizione è quasi chiara: il governo italiano non si è ancora arreso. Diciotto Paesi su diciannove firmeranno la ratifica della riforma. L’Italia proverà a trattare e a «convincere» il presidente del Mes a rivedere la riforma perché «dopo la Grecia nessuno utilizzerà mai quel fondo: ha senso tenere bloccate decine di miliardi in un momento come questo?». Tra tutti i capitoli toccati nella conferenza questo, per verti versi, è il più spinoso. Salvo contagi di dimensioni apocalittiche, la maggioranza sembra in grado di reggere un eventuale nuovo urto covid. Sul Mes le cose sono più complicate: per la Lega ma anche per FdI è il boccone più indigesto, il fronte più delicato. Così la premier sceglie di dilazionare, perché lei per prima sa che solo a questo può servire chiedere una revisione della riforma.

Con tutto lo sbandierato ottimismo, la premier non nasconde le difficoltà: quelle vere, sul Pnrr, devono ancora arrivare. Scrivere progetti sulla carta è facile. Tradurli in opere edificate è difficile sempre, ma in Italia è difficilissimo. Neppure può escludere di dover ricorrere allo scostamento, anzi un lapsus quasi rivela che sa quanto sia probabile quel dolorosissimo passo: «Non lo farò... cioè non lo farei a cuor leggero».

La visione di Giorgia Meloni è semplice, forse semplicista, ma ha il pregio della chiarezza: pugno di ferro sulla legge e l’ordine, manica larga per le aziende perché sono loro che creano ricchezza e posti di lavoro. Purché non le si ostacoli con lacci e lacciuoli di sorta. Quanto sia praticabile una simile ricetta in una fase segnata ovunque dal recupero di elementi keynesiani dopo il disastro dell’orgia liberista è tutto da vedersi, ma questa è per Giorgia, molto più di quanto non fosse per Berlusconi, il segreto dello sviluppo.

Il massimo limite però è un altro ed è un limite culturale più che politico. In tre ore di conferenza stampa la premier sembra davvero coinvolta nei drammi sociali che traversano il Paese che governa: la sanità a pezzi, la povertà crescente, l’occupazione sempre più precaria sono temi che cita, ma senza la passione che emerge altrove. Una crisi sociale di dimensioni massicce, come quella che segna oggi il Regno Unito, la troverebbe tanto impreparata quanto inadeguata.