«Non chiederti cosa possono fare gli Usa per l’Europa ma cosa può fare l’Europa per se stessa» : Giorgia Meloni parafrasa JFK al vertice europeo di Budapest, dove è ospite d’onore Mario Draghi per illustrare il suo rapporto sulla competitività, commissionatogli dalla presidente von der Leyen, già presentato in settembre all’Europarlamento, con quella proposta di investimenti monstre, 800 mld di euro all’anno, che fa drizzare i capelli sulla testa ai falchi dell’Unione, e per la verità anche a molte colombe. Ma a Budapest l’ombra di Trump è onnipresente e Super Mario ne approfitta anche per tirare acqua al mulino della sua proposta. «I rapporti tra Usa e Ue con Trump saranno molto diversi», commenta Draghi e aggiunge che le differenze non saranno tutte necessariamente in negativo.

Ma la preoccupazione è chiara: «Trump cercherà di incentivare l’innovazione tecnologica e di proteggere la produzione tradizionale, che è quella centrale nel nostro export verso gli Usa. Dunque bisognerà negoziare». Negoziare e darsi una mossa: «Una sola cosa non si può più fare posticipare». Per l’ex premier italiano nei Paesi ci sono gli spazi fiscali per portare le spese militari al 2% del Pil, altro obbligo già sottoscritto, per lo più disatteso ma che diventerà molto più stringente con Trump presidente.

La premier italiana frena: «Purché a pagare non siano i cittadini». È anche questo un modo di sfruttare la situazione, e la realtà dei fatti, a sostegno della propria visione: spese militari sì ma sottratte al calcolo del patto di stabilità.

Nel complesso il solo vero argomento all’odg nel summit di Budapest è quello ufficialmente non in agenda: i rapporti tra l’Europa e gli Usa del nuovo presidente. È un quadro nuovo che per la premier italiana comporta rischi, dal momento che gli Usa sono il secondo mercato di sbocco per l’export italiano e i dazi sarebbero un colpo pesante, ma anche opportunità di quelle che capitano di rado.

È possibile, anzi probabile, che a botta calda Giorgia Meloni abbia accolto la vittoria di Trump senza salti di gioia. Alla vigilia da palazzo Chigi si dicevano “laici”, cioè neutrali, e trattandosi della sfida tra un candidato che dice cose almeno simili a quelle che sostiene la premier italiana e una per molti versi schierata su una linea opposta la neutralità non era affatto scontata in partenza. A trionfo di Trump conclamato la presidente del Consiglio ha inviato un messaggio di congratulazioni persino più formale di quello del capo dello Stato Mattarella e molto più tiepido di quello di Conte, che in teoria dovrebbe essere il principale alleato del Pd.

Lo si può capire. Il rapporto fiduciario con Biden era stato il capolavoro diplomatico di Giorgia. Una certa delusione sul momento era inevitabile. Le cose sono cambiate in un paio di giorni e anche meno Gli stessi “laici” di Chigi hanno preso a segnalare che per un capo di governo avere a che fare con un presidente degli Usa che vede le cose allo stesso modo è sempre un vantaggio. La presidente è diventata di ora in ora meno fredda. Ha alzato il telefono per chiamare direttamente l’eletto, e sin qui nulla di strano, ma poi si è messa in contatto anche con il caro amico Elon Musk, la spo più potente e importante di cui si possa disporre oggi negli Usa. In breve, invece di restare in gramaglie Meloni ha visto l’occasione che le si offre e si sta già dando da fare per riuscire a coglierla.

Detta occasione è davvero d’oro, dal momento che a crearla non è solo la vittoria di Trump ma un intero concorso di fortunate circostanze. La debolezza dell’Unione europea è inversamente proporzionale alla forza che gli elettori hanno consegnatoall’ex presidente eletto di nuovo. Subito dopo il voto americano il cancelliere tedesco Scholz aveva chiamato il presidente francese Macron per tentare di impostare subito una reazione comune dell’Unione, indirizzata naturalmente dai due Paesi guida, la Germania e la Francia. Nel giro di appena un giorno però il governo di Scholz è entrato in fase di precrisi e comunque vada a finire non si vedono prospettive di governo forte a Berlino, con o senza elezioni anticipate. Macron non sta messo molto meglio. L’Unione è acefala e la presidente della commissione, Ursula von der Leyen, è già corsa a baciare l’anello del sovrano.

Ma, come dice Draghi e come sanno tutti, negoziare sarà necessario e la premier italiana è forse quella che ha le carte migliori per indirizzare la trattativa. Certo, Orban parla come se fosse una specie di proconsole di Trump in Europa e in effetti gode di massimo rispetto e stima in area MAGA. Ma l’Ungheria non è l’Italia, non è il terzo Paese per importanza dell’Unione, non è Paese fondatore, non fa parte del G7, dove invece l’Italia è oggi con gli Usa di Trump il solo Paese che possa vantare un governo stabile e in ottima salute. Orban, poi, è leader dei Patrioti, oggetto di un cordone sanitario rigido a differenza dei Conservatori di Meloni. Da questo punto di vista sarà più che rilevante quel che succederà martedì prossimo a Strasburgo, dopo l’audizione del commissario Fitto. Socialisti, Liberali e Verdi vorrebbero silurarlo o almeno togliergli la vicepresidenza esecutiva, per chiarire che anche i Conservatori sono al bando. I Popolari faranno il possibile per impedirlo, anche minacciando di abbattere per rappresaglia la commissaria e vicepresidente socialista Teresa Ribeira, e probabilmente la spunteranno. A quel punto, pur avendo votato contro la nuova presidenza von der Leyen, l’Italia di Giorgia Meloni sarà a tutti gli effetti parte della maggioranza europea.

L’occasione per la leader di FdI è indiscutibile, se saprà coglierla dimostrando di avere le doti anche diplomatiche necessarie, lo si vedrà presto.