La premier e FdI provano a tenere l'irritazione a freno: però trapela lo stesso. L'intera maggioranza tenta di minimizzare e ridurre la bomba a un petardo, classico caso di equivoco e interpretazione sbagliata: non ci riesce neanche un po’. 

Il ministro Giorgetti si è assunto il ruolo del bambino della favola: ha detto molto forte e molto chiaro che il re, in questo caso anzi la regina, è nuda. Ha detto una verità nota a tutti ma che sulla quale tutti, soprattutto governo e maggioranza, preferivano di gran lunga glissare: servono soldi, ne serviranno tanti e non possono venire fuori se non dalle tasche di chi in questi anni ha fatto quattrini a valanga. Sotto forma di tassa o di contributo poco importa. Il concetto cambia, sia chiaro, ma cambia fino a un certo punto. Comunque per l’ideologia della destra italiana si tratta di una bestemmia. Comunque, a fronte delle promesse elettorali, si tratta di imboccare la strada opposta.

Non è solo questione di manovra. I 25 miliardi necessari per coprire la legge di bilancio in qualche modo si troveranno. Se tutto si riducesse a questo la tempesta sarebbe tutto sommato contenuta. Ma la partita va molto oltre e non certo a caso per giustificare il suo affondo, tanto profondo che minimizzare è risibile, il ministro ha citato il rientro nel parametro sul deficit entro il 2026. Lo sforzo eccezionale che Giorgetti ritiene si debba chiedere «non solo agli individui ma alle aziende grandi, medie e piccole» è di lungo periodo. Non si rivolverà trovando fortunosamente i fondi necessari per la prossima legge di bilancio. Non è neppure tutto qui.

Tra le due opzioni consentite dall'Europa, il rientro in 4 o in 7 anni, l'Italia ha ovviamente chiesto la seconda. Ma si tratta di una richiesta, non di un automatismo. La dilazione sarà certamente concessa ma non a costo zero e quel costo è per ora un'incognita. Si sa che, per concedere il rientro in 7 anni, la Commissione chiederà riforme significative, ma quali e quanto dolorose è oggetto di una trattativa che deve ancora iniziare. Non è escluso che il ministro, esponendosi così, abbia anche voluto inviare un segnale all'Europa in vista di quella trattativa.

Il problema del ministro Giorgetti e forse anche della presidente Meloni, è che la maggioranza e il governo di cui fanno parte è sintonizzata su un'altra lunghezza d'onda. Salvini e Tajani, gli arcinemici, in questo sono identici: guardano al quadro politico interno, privilegiano, per usare un eufemismo, l'effetto in termini di popolarità e da quel punto di vista per l'elettorato di destra accettare un percorso lacrime e sangue come quello che Giorgetti ha illustrato ma che è la realtà a imporre sia più che traumatico. Il ministro, circondato dalla sua maggioranza ma anche dal suo stesso partito, la Lega, ha incassato ieri un appoggio prezioso, quello del presidente di Confindustria Orsini, che si è detto disposto ad accettare sacrifici, in particolare la revisione delle Tax Expenditures «in cambio della crescita».

Quella che si prospetta e a cui mira il presidente degli industriali è in realtà un'alleanza con il governo ben più ampia, con svariati obiettivi tra i quali primeggiano la revisione radicale del Green Deal e il ritorno al nucleare di ultima generazione. A quell'alleanza la premier è molto più che solo interessata, così come lo è a evitare rotture con la Ue e anzi garantirsi piena credibilità e affidabilità a Bruxelles. Ma sinora Giorgia Meloni è riuscita, con uno spericolato esercizio di equilibrismo, a tenere letteralmente il piede in due staffe: quella della leader realista, pragmatica e lungimirante, pronta a sacrificare l'interesse propagandistico a breve in vista di un obiettivo strategico di medio periodo, ma anche quella della leader "populista", attenta soprattutto alla propaganda, disposta a dispensare a man bassa slogan che non si conciliano con la visione strategica dell'"altra Giorgia", quella che ambisce a essere una vera statista non solo italiana ma europea.

La premier gioca sulla doppia immagine su tutti i fronti ma quello indicato ieri con spietata sincerità dal suo ministro dell'Economia è il più importante di tutti, perché tocca direttamente la vita dei cittadini nel prossimi anni e perché è, con la guerra, il suo vero banco di prova. Come deciderà di comportarsi la premier, che sin qui è sempre mossa in totale accordo con le scelte austere del ministro ma che a botta calda non ha affatto gradito la sua intemerata, è forse la principale incognita. Dalla quale dipende anche la figura della premier italiana a livello europeo e il ruolo che potrà giocare su quel palcoscenico in futuro.