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Andrea Orlando
Andrea Orlando va all’attacco dei cinquestelle. E il ministro, nel suo intervento all’assemblea pd di domenica, dimostra che si può essere duri con il movimento di Grillo senza invocare la rimozione di Virginia Raggi. Tutt’altro: il cuore dell’antigrillismo è in una frase che Orlando pronuncia dal palco dell’Ergife: «Abbiamo utilizzato il giustizialismo come surrogato della battaglia per la giustizia sociale, è ora di voltare pagina». Giù applausi. Molti. Molti più di quanti ce ne sarebbero stati solo pochi anni fa, al culmine di un ragionamento su Berlusconi e gli errori commessi dal centrosinistra nel combatterlo. In quell’appello a dismettere strategie abusate per un ventennio e a «far tornare le periferie dentro il partito» c’è la linea del 47enne leader dei Giovani turchi: vocazione popolare, radicamento e garantismo. Orlando non annuncia candidature al congresso, piuttosto chiede di «ricostruire il partito». In un’intervista uscita sul Corriere della Sera sempre domenica scorsa, il guardasigilli chiarisce che i nomi per la segreteria verranno dopo. Non è casuale, la scelta: Orlando non ha il tono della resa dei conti bersanian-dalemiana. È sì alternativo a Renzi, ma non in un’ottica di conflitto personale, casomai in termini di battaglia delle idee. Non ha dunque bisogno di utilizzare l’annuncio della discesa in campo come antipasto dell’offensiva. Orlando ha il vantaggio di evocare quasi in solitudine un modello di Pd popolare. «In periferia ci vivo», ricorda pure nell’intervista al Corriere. La novità è appunto l’incontro inedito tra radicamento e rottura col giustizialismo. Operazione in apparenza temeraria: oggi il popolo ha sete di colpevoli. Lui se ne infischia in nome di un’analisi che coincide, non a caso, sempre con una spallata ai cinquestelle: «C’è un’affermazione di cui il grillismo è solo la parossistica degenerazione, e che risale a inizio anni Novanta: i partiti non andavano riformati, semplicemente non servivano più, perché si sarebbe affermata una repubblica dei cittadini. I quali, più liberi, avrebbero concorso al governo. Ma non è andata così», ricorda il ministro, «sono diventati più forti gli interessi particolari e quelli criminali», sempre più penetranti, ricorda Orlando, «proprio perché i partiti sono diventati più deboli, leaderistici, privi di radicamento sociale effettivo». Sa di bocciatura della partecipazione ridotta ai social network - altro must del grillismo - e dello stesso italicum, esplicitata dal guardasigilli: «Con un quadro tripolare, una maggioranza che sia nel Paese infima minoranza conquista il diritto a governare, ma poi bisogna vedere se riesce a farlo avendo contro l’80 per cento delle persone in carne e ossa di un Paese». Guarda non al «proporzionale puro» ma neanche a un «maggioritario muscolare». Su questo Orlando marca un’altra distinzione da Renzi. Ma senza seguire la bussola del conflitto personalistico. Anzi, dice che l’ex premier «ha torto su un punto, quando dice che la sconfitta è sua: ai suoi errori vanno aggiunti i nostri». Errori che sono a volte «peccati di omissione», e qui Orlando trova il modo di agganciarsi all’autocritica di Delrio. Così come, sempre nel discorso di domenica, sa riconoscerli «nelle questioni sollevate da Gianni Cuperlo» a proposito della crisi e della disgregazione sociale prodotta nel Paese. Se si è «rotto quel senso di comunità», secondo il confermato ministro della Giustizia, è per un meccanismo che «tu Matteo hai descritto ma non hai spiegato». Prova a farlo lui, Orlando, e ricorda, fino a commuoversi, come «una figura da cui sono personalmente colpito, quella di Pio La Torre, dimostri che nel dopoguerra un figlio di contadini o un maestro di scuola potevano diventare dirigenti di partito, classe dirigente del Paese: dubito che una vicenda simile potrebbe ripetersi oggi, se una persona del genere venisse a bussare a uno dei nostri circoli». Giù applausi, ancora. Segno che sull’idea dell’urgente ritorno a una dimensione popolare, almeno su quella, renziani e antirenziani si sentono ancora nella stessa casa comune.