La sofferta decisione del Parlamento europeo su Raffaele Fitto doveva arrivare, finalmente, ieri sera, come da prassi dopo l’audizione del commissario alla Coesione designato dal governo italiano. Niente da fare. Tutto, in un primo momento, sembrava rinviato a oggi. Niente da fare neppure così, almeno a quanto pare la situazione essendo alquanto confusa. Sembra però che il voto su Fitto, come quello sull’Alta commissaria per la politica estera Kaja Kallas, siano state «posposte» a data da destinarsi. Basta e avanza per capire quanto alta sia la tensione intorno al caso del commissario europeo. Ma proprio il fatto che sia montato un problema di simili dimensioni impone di fare il punto su quale sia la vera posta in gioco.

Nonostante il trionfalismo a uso della propaganda del governo, la vicepresidenza esecutiva di Fitto non è una postazione decisiva. Il ruolo pesante, tra i 6 vicepresidenti, è casomai quello della socialista spagnola Teresa Ribeira, con deleghe fondamentali come quelle al Green Deal e alla Concorrenza, oppure, pur senza una vicepresidenza, quello di Valdis Dombrovskis, incaricato anche di sorvegliare il rispetto del Patto di Stabilità.

La delega alla Coesione affidata a Fitto è di buon calibro ma nulla di più e affidargli un incarico meno importante sarebbe stato umiliante non per il governo italiano ma per l’Italia, terzo Paese dell’Unione in ordine di importanza. L’aggiunta della vicepresidenza, in sé, è quasi irrilevante.

L’audizione dell’italiano è andata sostanzialmente bene, come ammettono anche dall’interno del Pd. Gli hanno rinfacciato il voto contrario al Next Generation Eu. Ha chiesto scusa: «Se dovessi votare oggi sarei a favore». Gli hanno chiesto conto dello stato di avanzamento del Pnrr, di cui era responsabile nel governo italiano. Ha assicurato che con il 48% delle opere realizzate sta andando bene e che conta sia completato entro il 2026. Aveva le spalle coperte dal severissimo Dombrovskis, che lo aveva promosso ufficialmente qualche giorno fa, e se l’è cavata senza danni. Ha aggirato le domande insidiose sul capitolo immigrazione dicendosi semplicemente d’accordo con il futuro commissario Brunner e ha respinto con sdegno da ex democristiano le accuse di fascismo: «Non lo sono e il tema è lontanissimo da qualsiasi ipotesi reale».

In conclusione, se non ci fosse la vicepresidenza di mezzo, su Fitto non ci sarebbero obiezioni da parte del gruppo del Pse e il Pd Nardella lo dice chiaro e tondo: «Nell’audizione Fitto sta andando bene ma il problema non è quello e se von der Leyen non chiarisce c’è il rischio che la commissione non venga votata».

Sulle vicepresidenze infatti non è previsto voto di sorta. Il solo modo di bocciarle, a parte l’eventuale affossamento del singolo candidato, è votare contro l’intera commissione. Per il Pd è anche un modo per tirarsi fuori da un dilemma imbarazzante. Bocciare Fitto vorrebbe dire esporsi all’accusa di lavorare contro gli interessi del Paese in nome di quelli della fazione. Promuoverlo senza l’accordo di tutto il gruppo S& D significherebbe spaccare i socialisti. Ponendo il problema della vicepresidenza, cioè chiedendo a von der Leyen di ritirare quell’incarico a Fitto, pensano di cavarsela con una posizione equilibrista.

Ma la domanda resta: qual è il problema in un incarico così poco significativo dal punto di vista del potere reale? La risposta è semplice: sul piano politico e simbolico il quadro si rovescia e quella vicepresidenza diventa invece un passaggio importante. Equivarrebbe a dichiarare che contro il gruppo Ecr, la sua presidente Giorgia Meloni, la sua delegazioni principale che è quella dell’italiana FdI non c’è bisogno di cordoni sanitari. I socialisti temono che una simile apertura da parte del Ppe non resterebbe a lungo confinata a Bruxelles ma si estenderebbe anche ai singoli Paesi e sospettano che non si limiterebbe ai Conservatori ma finirebbe per allargarsi anche alle formazioni di destra più radicali. La partita insomma non con il governo italiano ma tra Ppe e Pse. Ma su quel tavolo la posta è effettivamente alta.