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Giulio Andreotti
Massimo Fini, un giornalista e scrittore fra i più urticanti, della cui pur scomodissima collaborazione ho avuto il privilegio di godere negli ormai lontani anni della direzione del Giorno, è ciò che soleva dire il compianto Giovanni Malagodi, che ne produceva nei tempi liberi dalla politica: i buoni vini migliorano invecchiando.
Sulla strada ormai degli 80 anni è capitato a Massimo di condividere una fila postale con Stefano Andreotti, il secondogenito del “divo Giulio” nato esattamente 104 anni fa e morto quasi da dieci, dopo essere stato sette volte presidente del Consiglio, non ricordo più quante volte ministro, una volta capogruppo della Dc alla Camera, e un’altra volta quasi candidato al Quirinale, nel 1992, mai segretario del suo partito, non si è mai capito bene se per scelta o per mancanza d’occasione. E infine imputato eccellente di associazione mafiosa e di omicidio, assolto per l’una e per l’altro. Pazienza se an- cora oggi l’accusatore ormai pensionato Gian Carlo Caselli sostiene, ogni volta che qualcuno gliene dà il motivo scrivendo appunto delle assoluzioni, che quella per mafia vale poco o niente per via della prescrizione che avrebbe risparmiato al senatore a vita - altra carica collezionata da Andreotti - la condanna per fatti, conoscenze e quant’altro risalenti a prima del 1981.
La casuale condivisione di quella banale fila postale col figlio, che neppure conosceva ma di cui ha scoperto il nome sentendolo pronunciare dall’impiegato allo sportello, ha felicemente rinverdito nella memoria di Massimo Fini il ricordo del padre. Nel quale egli si era imbattuto giovanissimo in un ippodromo romano facendogli cadere gli occhiali e aveva poi avuto modo anche di intervistare da giornalista cominciando ad apprezzarne acume, gentilezza, puntualità, cultura, ironia e altro ancora. Tanto da fargli scrivere, a conclusione di un articolo pubblicato il 12 gennaio sull’insospettabile o sorprendente, come preferite, Fatto Quotidiano diretto da Marco Travaglio che Andreotti «in qualsiasi altro Paese d’Europa sarebbe stato un grande statista. Da noi è stato uno strano ircocervo: mezzo statista e, forse, mezzo delinquente». Un enigma, avrebbe detto Winston Churchill.
Non poteva scrivere meglio il buon Massimo, e fare uscire sul suo giornale il pur meno buono Marco per quella mania che ha, fra l’altro, di storpiare nomi e storie di persone non gradite pensando di fare solo dell’ironia.
C’è tuttavia qualcosa dell’articolo di Massimo Fini che al pur compiaciuto - per il resto - Mattia Feltri non è piaciuto scrivendone nella sua brillantissima rubrica quotidiana sulla prima pagina della Stampa. È il sollievo espresso da Massimo di non essergli mai capitato di seguire la politica frequentando le Camere nelle fila, diciamo così, della stampa parlamentare. Dove io e altri abbiamo evidentemente sprecato sessant’anni della nostra via professionale.
Lo spazio percorso da noi poveri sfortunati, a dir poco, è stato definito da Mattia, che lo bazzica senza le lenti del qualunquismo, «il chilometro quadrato più onesto d’Italia», essendo il Parlamento «popolato da gente con un senso dello Stato e delle istituzioni e con un rispetto delle leggi e del ruolo disastrosamente bassi, ma molto più alti che nel resto del Paese». Egli ha citato a testimonianza delle sue convinzioni le consolanti sorprese confidategli da alcuni grillini arrivati a Montecitorio e a Palazzo Madama con la convinzione di dovere risanare chissà quali fogne, cominciando col ridurre i seggi parlamentari per velocizzare pulizie e quant’altro. Ah, il qualunquismo, malattia infantile o senile, come preferite, del moralismo sparso fra piazze, scuole, associazioni più o meno culturali, redazioni di giornali e tribunali, in un miscuglio di ipocrisia e infamia.
È inutile poi stupirsi dell’assenteismo elettorale, dei giornali che vendono sempre meno copie, per quanto infarciti di antipolitica, e di edicole che chiudono, tanto poco ormai si ha voglia in Italia di essere informati. Gli stessi strumenti elettronici vengono compulsati spesso, o maniacalmente, da ragazzi, giovani e anziani più per giocare che per sapere o conoscere.