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Cene, caminetti, vertici. E poi alleanze, rotture, guerre all’ultimo sangue, ricomposizioni: da 25 anni nulla condiziona la politica italiana quanto i travagliati rapporti Arcore e Pontida, tra Forza Italia e la Lega, tra Silvio Berlusconi e Umberto Bossi prima, Matteo Salvini adesso.
«Quello deve solo sborsare e portarci la gnocca, che a Canale 5 ce n’ha tanta», così si esprimevano graziosamente i soldati di Bossi una venticinquina d’anni fa. Il Cavaliere non era ancora entrato in politica. Esitava, si fingeva indeciso per moltiplicare l’effettaccio della discesa in campo. Ma il suo arrivo era nell’aria e la Lega doveva farci i conti. La battutaccia in questione, una delle tante, era di pochi minuti successiva al discorso con cui Umberto Bossi aveva aperto le porte al dialogo con Arcore. Non era scontato in partenza. All’epoca la Lega, col vento in poppa al Nord, un partitone che in pochissimi anni aveva conquistato da solo oltre il 50% dei voti a Milano, si ammantava di nuovismo e inneggiava a Di Pietro. Bossi però aveva capito subito che liberarsi del Cavaliere non sarebbe stato facile. Riunì l’assembleona e spiegò che in una prima fase sarebbe stato necessario allearsi con una parte dei vecchi e decrepiti poteri.
Solo che Berlusconi non portò solo ' soldi e gnocca' ma anche una macchina da guerra costruita dalla struttura Publitalia e vinse le elezioni alleato sì con il Carroccio, ma derubricato a comprimario. Generoso offrì ministeri a spiovere, ma il bastone del comando se lo tenne stretto. Che al capo leghista la situazione andasse stretta si capì subito, anche se molti dei suoi, invece, si accomodarono papali. Il 25 aprile di quell’anno di grazia 1994 una oceanica manifestazione convocata dal Manifesto spazzò sotto il diluvio le strade di Milano. Qualche leghista la criticò sprezzante: il Senatùr, come si chiamava allora, lo bacchettò di brutto: ' «Quando il popolo si muove bisogna sempre ascoltarlo». Andò oltre, fece addirittura capolino, per qualche nanosecondo, ai margini del corteo, in serata. Nulla di strano: «Noi siamo gli eredi della lotta antifascista».
Il disagio s’impennò d’estate. Berlusconi tentò la carta del cosiddetto «decreto salvaladri». Né la Lega né Alleanza Nazionale potevano accettarlo. S’impose una ritirata che lasciò il trionfatore di pochi mesi prima trasformato in anatra zoppa. In estate Bossi si presentò a villa Certosa, ospite del Cavaliere che quanto a forme non sfigura al confronto di un piccolo borghese ottocentesco, in tenuta rapper- coatta: canottiera rigorosamente a coste. Un segnale che valeva cento discorsi politici. Quel che ossessionava il leghista era proprio la rapidità con cui i suoi barbari si stavano abituando alla greppia di re Silvio. Per la fine di dicembre il governo era caduto e Bossi era il nemico numero uno di ' Berluskaiser', o ' Berluskaz' o comunque gli passasse per la mente di bollare l’ex alleato.
Quella della Lega era stata una scommessa arrischiata. Se si fosse votato subito dopo la crisi, il Carroccio sarebbe stato travolto. Anche grazie alla proverbiale cedevolezza di Berlusconi invece si votò dopo un anno e mezzo, e Bossi vinse la scommessa. La Lega superò nelle elezioni del 1996 il 10%, massimo storico sino al 2018.
Per due anni Berlusconi e l’allora suo più stretto alleato Gianfranco Fini avevano ripetuto che con Bossi non avrebbero mai più avuto nulla a che fare. «Nemmeno un caffè», giurava tassativo Fini. Quel risultato cambiò tutto. Nell’Italia bipolarista di vent’anni fa, il Polo di destra non poteva permettersi di lasciare senza collare il 10% dei voti e la Lega aveva dimostrato di essere impermeabile alle sirene del ' voto utile'. Bisogna cambiare strada e Berlusconi si attrezzò a farlo nei cinque anni successivi, quelli dell’opposizione e della «traversata del deserto». Per la Lega la situazione non era più rosea: poteva costringere la destra alla sconfitta, ma nulla di più. Bossi tentò la carta del secessionismo, furono gli anni delle ampolle e del dio Po: alle elezioni amministrative del 1999, terreno favorevole per il Carroccio, i consensi dimezzarono rispetto a tre anni prima.
Il nuovo matrimonio con il partito azzurro, non più ' Polo' ma ' Casa' delle libertà nasceva, esattamente come il primo, sulla base dell’interesse reciproco. Eppure le cose andarono in direzione opposta. Berlusconi aveva mangiato la foglia e non intendeva ripetere l’errore del ‘ 94. Stavolta la Lega fu vezzeggiata e corteggiata, a spese di una An che si riteneva giustamente costretta a restare fedele volente o nolente. L’ascesa al ministero dell’Economia di un forzista molto vicino al Carroccio come Giulio Tremonti, rinsaldò l’intesa.
Nel 2004 Bossi colpito da ictus rischiò la vita e perse per sempre il controllo sul linguaggio. Berlusconi, che è notoriamente generoso, si fece in quattro per salvarlo senza badare a spese. Si creò un rapporto personale, fondato anche sulla gratitudine di Bossi, che non sarebbe venuto meno fino al 2011. I caminetti di Berlusconi, Bossi e Tremonti sono stati in quegli anni la vera tolda di comando dei governi di centrodestra.
Dalla guerra che dal 2011 ha lacerato il Carroccio è uscita fuori una Lega tutta diversa, tanto da non adoperare mai la parola un tempo magica di ' federalismo'. Tra Salvini e un Berlusconi invecchiato non ci sono certo i rapporti che guerre e riappacificazioni avevano cementato tra il Cavaliere e Bossi. L’uomo chiave della Lega moderata, il leader che era stato contrario alla rottura rischiando l’espulsione già nel 1994, Roberto Maroni, è fuori gioco così come l’ex onnipotente ministro dell’Economia che era la vera cerniera tra i due partiti e tra i due leader.
Con Salvini la relazione è tornata a fondarsi in equa misura sull’interesse e sulla reciproca diffidenza. Però quell’asse continua a orientare la politica italiana.