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MARIO DRAGHI
Ursula von der Leyen, presidente ieri oggi e domani della Commissione europea, voleva un consulto sulla ricetta migliore per restituire forza alla competitività europea. Lo aveva chiesto a quello che lei stessa dichiara di considerare la fonte più adeguata e autorevole, a Mario Draghi. L’ex presidente della Bce ha preso il compito molto sul serio, ci ha lavorato un anno prima di presentare, in conferenza stampa a fianco di Ursula, un report forte di ben 178 proposte che costituisce un progetto omogeneo di rifondazione dell’Unione europea: per quel che dice e anche di più per quello che postula.
Draghi sottolinea che si tratta di un rapporto tecnico, non politico, ma è una distinzione nel suo caso poco sensata. L’ex premier italiano ha una visione precisa e la persegue strenuamente quali che siano i panni che di volta in volta indossa. Né c’è solo questo: per il pragmatico Draghi la linea di confine è davvero sottile. Se l’Unione vuole essere all’altezza delle proprie ambizioni e delle proprie promesse può a suo parere battere una sola strada: l’alternativa non è un decesso a breve ma un’agonia magari lenta ma inesorabile. Non si tratta di aspettare una crisi per muoversi, dice chiaramente l’autore del Rapporto nella presentazione: «La crisi c'è già».
I settori chiave sui quali l’Unione deve battere sono tre: l’innovazione tecnologica, settore chiave dove l’Europa segna il passo. Lo dicono i dati: tra le 50 società tecnologiche solo 4 sono europee, il divario di crescita tra Usa e Ue è passato dal 15% di 22 anni fa al 30% attuale, in 13 anni circa il 30% delle startup europee più produttive, quelle che hanno il valore di almeno un mld di dollari, si sono trasferite all’estero, quasi sempre negli Usa. Sulla tecnologia digitale la dipendenza del vecchio continente è schiacciante, con un import di chip dall’Asia che oscilla tra il 75 e il 90%. La Cina inoltre sta correndo e diventa sempre più concorrenziale su fronti chiave come la produzione delle auto elettriche, essenziale per quanto riguarda la seconda urgenza assoluta segnalata dal Report, cioè la decarbonizzazione.
Il passaggio all’energia pulita è «un obbligo verso il pianeta». Gli obiettivi che l’Europa si è data sono giustamente ambiziosi. Però, «se non corrisponderà un Piano coerente per raggiungerli» la decarbonizzazione potrebbe diventare un freno invece che un volano «per competitività e crescita». Il problema è che non funziona ancora a sufficienza il mercato comune, oggetto non a caso del report parallelo e convergente prodotto da Enrico Letta. Così finisce che «le regole del mercato impediscono alle industrie e alle famiglie di cogliere appieno i benefici dell’energia pulita nelle loro bollette. Le tasse elevate e le rendite elevate, catturate dagli operatori finanziari, aumentano i costi dell'energia per la nostra economia».
Il terzo pilastro che impone un intervento drastico è la difesa, nodo anche direttamente economico e che attiene alla concorrenza perché «la sicurezza è un prerequisito per una crescita sostenibile. L’aumento dei rischi può aumentare l’incertezza e frenare gli investimenti, i grandi shock geopolitici possono essere estremamente dirompenti». Non è che la Ue spenda troppo poco: è anzi l’attore che sborsa di più dopo gli Usa. Ma lo fa male, in maniera «troppo frammentata», il che «ostacola la sua capacità di produrre su larga scala» e paga anche la «mancanza di standardizzazione delle attrezzature». La conseguenza è un dato eloquente che Draghi aveva già sottolineato nei mesi scorsi: gli Usa producono un solo tipo di carro armato, l’Europa ne conta 12 diversi.
Quella che Draghi delinea è un’impresa ciclopica. Anche dal punto di vista dell’investimento economico. Per centrare gli obiettivi su questi tre fronti, «la quota di investimenti in Europa dovrà aumentare di 5 punti percentuali del Pil». Sono 800 mld di euro l’anno, il doppio, mld in più mld in meno, del Piano Marshall, che arrivava al massimo a 2 punti percentuali di Pil. Per trovarli non c’è strada alternativa al debito comune.
Il tecnico Draghi può anche fermarsi qui. Le conseguenze politiche del suo rapporto si impongono da sé. Il debito comune è una strada obbligata, una accelerazione vertiginosa della cooperazione rafforzata è urgentissima, i Paesi che dissentono non possono più rallentare tutto, se occorre si deve ricorrere a una «coalizione di volenterosi» come la definisce Draghi ripescando la definizione da un precedente tanto poco fausto quanto la guerra in Iraq, i processi decisionali non possono più marciare a passo di lumaca, in media 19 mesi per una nuova legge, data la necessità di concordare e mediare con tutti in forze della regola dell’unanimità.
Il limite del progetto di Mario Draghi è questo: proprio perché non vuole e non può parlare di politica, può e anzi deve sorvolare sugli ostacoli che rischiano forte di rendere la sua visione un miraggio e che sono tutti di natura politica. Ma senza risolvere quelli, le visioni resteranno tali.