Il ritorno di Trump può rappresentare una scossa per l’Ue, e quindi non essere necessariamente un male. A suggerirlo è Mario Draghi da Budapest, dove è in corso il vertice informale dell’Unione. Il ragionamento da cui muove l’ex numero uno della Bce ed ex-premier italiano è, sostanzialmente, che ora che gli interessi statunitensi ed europei rischiano di entrare in rotta di collisione, la ricetta contenuta nel rapporto che reca in calce il suo nome diviene un documento da prendere in considerazione con urgenza.

La vittoria di Donald Trump porterà inevitabilmente a una competizione commerciale tra Washington e l’Europa, a partire dalla reintroduzione dei dazi, ma questa prospettiva non deve innescare un conflitto, che vedrebbe il nostro continente ineluttabilmente soccombere di fronte a giganti come Usa, Cina e Sud-Est asiatico. La strada obbligata, dunque, sono le riforme da tempo chieste da Draghi in termini di governance e di competitività economica, che le cancellerie e i vertici comunitari dovranno adottare senza più il timore di pagare a livello di consenso.

«Mi auguro che ritroveremo uno spirito unitario», ha affermato l’ex premier, «con cui riusciremo a trovare il meglio da questi grandi cambiamenti». «Andare in ordine sparso?», ha proseguito, «Siamo troppo piccoli, non si va da nessuna parte». L’Unione Europea, per Draghi, è «troppo piccola» per sostenere una guerra commerciale: «Ho appena detto che bisogna negoziare con l’alleato americano, in maniera tale da proteggere anche i nostri produttori europei». Le indicazioni del Rapporto, «già urgenti, data la situazione economica in cui siamo oggi, sono diventate ancora più urgenti dopo le elezioni negli Stati Uniti», perché «non c’è alcun dubbio che la presidenza Trump farà grande differenza nelle relazioni tra gli Stati Uniti e l’Europa».

Contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, per Draghi «non necessariamente tutto in senso negativo, ma certamente noi dovremmo prenderne atto». Dal punto di vista della competitività, l’ex premier osserva che «questa amministrazione sicuramente darà grande impulso ulteriore al settore tecnologico, dove noi siamo già molto indietro e questo è il settore trainante della produttività». Già ora, ricorda Draghi, «la differenza della produttività tra gli Stati Uniti e l’Europa è molto ampia, quindi noi dovremmo in un certo senso agire e gran parte delle indicazioni del Rapporto vanno proprio solo su questo tema».

L’altro esempio, prosegue Draghi, «è che sicuramente si sa poco di quello che succederà esattamente, ma una sembra più sicura delle altre, e cioè che Trump tanto impulso lo darà nei settori innovativi e tanto proteggerà le industrie tradizionali, che sono proprio le industrie dove noi esportiamo di più negli Stati Uniti». Quindi, conclude Draghi, «lì dovremo negoziare con l’alleato americano, con uno spirito unitario tale da proteggere anche i nostri produttori europei». Una necessità che chiama però in causa uno dei problemi maggiori dell’Europa, e cioè la burocrazia e la macchinosità del processo decisionale: «Quello che l’Europa non può più fare», sostiene l’ex-premier, «è posporre le decisioni. Come avete visto in tutti questi anni si sono posposte tante decisioni importanti perché aspettavamo il consenso. Il consenso non è venuto, è arrivato solo uno sviluppo più basso, una crescita minore, oggi una stagnazione».

Sugli strumenti, Draghi non elude il tema del debito comune, uno dei più divisivi all’interno dei 27, ma anche su questo fronte adotta una linea costruttiva: «Ci sono moltissime altre decisioni che si possono prendere senza affrontare immediatamente il problema del finanziamento pubblico comune. Questo è chiaramente necessario per alcuni progetti comuni, di comune interesse europeo, ed è previsto che per questi progetti vi sia finanziamento comune».

Sembra però proprio questo il nodo fondamentale, vale a dire come finanziare la competitività europea, e lo conferma anche la presidente del consiglio Giorgia Meloni: «Ricordo che il dibattito sulla competitività europea», afferma la premier, «è iniziato mesi fa. Ebbe un’impennata all’indomani dell’Inflation Reduction Act, il piano imponente di aiuti di Stato che l’amministrazione Biden metteva in campo per proteggere l’economia americana, che rischiava di creare un disequilibrio con l’attrattività europea. Partendo dal piano presentato da Mario Draghi, credo che ci siano molte sfide. Più o meno, noi sappiamo che cosa dobbiamo fare. La grande domanda alla quale dobbiamo rispondere adesso è se davvero vogliamo dare gli strumenti agli Stati membri per centrare gli obiettivi e le strategie che ci poniamo di fronte. Su tutte, la questione delle risorse è certamente quella che va affrontata, perché sappiamo che gli investimenti necessari per fare tutte le cose che vorremmo fare sono molti. Questo è secondo me il vero dibattito, ed è l’elemento centrale sul quale intendo concentrarmi».