«I sogni durano poco». La sociolinguista Vera Gheno liquida con l’ironia la breve parabola del disegno di legge contro i femminili professionali vergato dal senatore leghista Manfredi Potenti. Una battaglia privata del parlamentare in questione, spiega il Carroccio, che ha già rimesso l’iniziativa nel cassetto.

«I vertici del partito, a partire dal capogruppo al Senato Massimiliano Romeo, non condividono quanto riportato nel Ddl Potenti il cui testo non rispecchia in alcun modo la linea della Lega, che ne ha già chiesto il ritiro immediato», dicono fonti interne. Che si affrettano al passo indietro dopo la notizia circolata ieri tra le polemiche. Esplose nel placido pomeriggio di luglio quando le agenzie di stampa hanno riportato la bozza del testo che non vedrà mai la luce. Il titolo è significativo: “Disposizioni per la tutela della lingua italiana, rispetto alle differenze di genere”. E lo è anche l’obiettivo: abolire per legge l’uso del femminile negli atti pubblici per vietare l’uso di parole come “avvocata”, “sindaca” o “questora”. Pena una “sanzione pecuniaria amministrativa consistente nel pagamento di una somma da 1.000 a 5.000 euro”.

Con lo scopo di “preservare l’integrità della lingua italiana”, il senatore toscano vorrebbe proibire i “neologismi applicati ai titoli istituzionali dello Stato, ai gradi militari, ai titoli professionali, alle onorificenze”. E non fa mistero del vero bersaglio: l’uso del cosiddetto “femminile sovraesteso” – definito “sperimentazione linguistica” - che l’Università di Trento ha deciso di utilizzare al proprio interno.

La rivincita del “maschile universale”, per ora, dovrà aspettare. E le opposizioni, che hanno subito protestato con forza, se ne prendono il merito. «Ne siamo ovviamente contenti, ma a tutte e tutti dico: non sottovalutiamo il problema», avverte la senatrice del Pd Valeria Valente. «Questa destra crede nel modello patriarcale di società e lo dimostra di continuo: sull’aborto, sull’occupazione femminile, sulla famiglia. Non abbassiamo la guardia, perché è dal linguaggio che parte il cambiamento». Ma è davvero così?

«Il linguaggio di genere è una categorizzazione che si usa per riflettere sulla presenza del femminile in italiano. Ma in realtà si tratta del normale funzionamento della lingua italiana», spiega Gheno. Tanto rumore per nulla, dunque, dice la sociolinguista. Per la quale è difficile cambiare una lingua a tavolino, e ancora di più lo è vietarne l’evoluzione. Anche se nella storia non sono mancate svolte imposte “dall’alto”, come la decisione «politica» di unificare l’Italia anche dal punto di vista linguistico, «il divieto funziona solo in un contesto: quello dei totalitarismi». «Il neutro non esiste. Se i femminili professionali stanno crescendo di importanza - argomenta Gheno - è perché è cresciuta l’importanza delle donne nella società. Le donne hanno conquistato sempre più possibilità di ricoprire professioni e posizioni che prima erano loro vietate».

E ciò vale anche per le parole che in realtà hanno un uso antico, come il dibattuto “avvocata”: se ora ci suonano “male”, è semplicemente perché non siamo abituati ad usarle. «Ciò che è impressionante di questi tentativi di legiferare sulla lingua è che si basano una completa ignoranza sia del funzionamento che della storia della lingua italiana, e questo forse è l’aspetto più grave», sottolinea l’esperta. Per la quale «le reazioni isteriche» alla provocazione dell’Università di Trento «sono la migliore dimostrazione che la lingua è politica».

Un altro esempio? Eccone uno: la prima circolare partita da Palazzo Chigi per titolare la neo premier Giorgia Meloni al maschile, “il Signor presidente del Consiglio”. «Allora bisogna decidersi – chiosa Gheno -: o le questioni linguistiche sono ‘quisquilie’, oppure non è così, altrimenti non si spiegano tutti questi tentativi di legiferare...».