PHOTO
Il cimento del continuismo nelle turbolenze della discontinuità: il titolo del suo nuovo scritto, fresco di stampa per gli amici del Censis, farebbe pensare a un concetto arzigogolato, difficile da comprendere. Invece Giuseppe De Rita, fondatore del Censis, dipana la tesi fondante del suo volumetto di cinquanta pagine in maniera assai nitida e semplice. Ci viene spiegato come il tessuto profondo della nostra società affronta fratture anche drammatiche senza lacerarsi più di tanto.
Professore, siamo quindi arrivati al sovranismo psicologico?
First myself. Conto io con la mia capacità sovranista di decidere. Per fortuna non siamo arrivati a questi estremi, ma bisogna riflettere sull’ultimo episodio accaduto in Nuova Zelanda. Nella testa di quel signore è scattato il meccanismo: io sono bianco, rappresento i bianchi e ammazzo tutti quelli che negano la supremazia dei bianchi. In quel caso parliamo di un sovranismo psichico demente.
Il meccanismo parte da “american first”, passa per “prima gli italiani” e arriva a “prima me” che è una sorta di ultimo stadio. Che arriva a forme deliranti di ritorno a un’etica etnica: i bianchi contro i neri, gli asiatici contro gli europei. Siamo al ritorno della rudimentalità della civiltà.
First myself dominerà anche le Europee?
Basta vedere le foto degli incontri dei vari sovranisti europei con quelli di casa nostra: sono tutti myself. E infatti litigano tra di loro.
Il peso massimo italiano della categoria è Matteo Salvini: quanto potrà durare la sua parabola vincente?
Sei mesi fa era l’astro nascente, ora deve reggere la posizione ottenuta. Se è intelligente dovrà ridurre la sua esposizione. Renzi, dopo la vittoria alle scorse Europee, non aveva capito che doveva abbassare i toni. Se, invece, il suo “american first” dovesse prevalere, Salvini continuerà a voler essere protagonista minuto per minuto. Stessa cosa vale per Luigi Di Maio. Alla fine Rocco Casalino spingerà sulla loro immagine, facendo passare il messaggio che c’è un duro che chiude i porti, ma che ha una bella donna accanto con la quale farsi immortalare.
Ezio Mauro ha parlato di democrazia senza governo: è d'accordo?
Il vero punto cruciale è stata la disintermediazione, la rottura cioè di tutta una fascia intermedia costruita negli anni. Se si pensa al periodo che va dal dopoguerra agli anni 70 ci si rende conto che è stato costruito un vero e proprio sistema basato sulle piccole e medie imprese, le associazioni di categoria, i sindacati, le province, le Comunità montane. Forse ce n’erano troppi, ma esistevano dei livelli intermedi che svolgevano una grande funzione. A un certo punto però nella società italiana è successo quello che il cardinale Tarcisio Bertone disse al cardinal Vallini: «Wojtyla ed io da San Pietro vogliamo vedere Castel Gandolfo e niente in mezzo». Giovanni Paolo II è stato un maestro di disintermediazione, puntando tutto sul suo carisma. Non ha nominato un vescovo che fosse intermedio. Erano soprattutto nunzi, e il risultato è stato che anche la Chiesa non ha livelli intermedi.
Anche papa Francesco sta facendo lo stesso, puntando sul suo carisma.
In Italia, ma negli altri Paesi la situazione è diversa. L’Osservatore Romano dà conto degli incontri settimanali del Papa con il cardinal Oullet, prefetto della Congregazione dei vescovi. Se a Roma ci fosse un concilio, oggi tornerebbe solo un terzo dei vescovi tradizionali.
I sindacati stanno tentando di invertire la tendenza?
È difficile. Come si fa a invertire il meccanismo del sovranismo psichico nella classe operaia? Anche in fabbrica impera il myself e il non riconoscimento delle organizzazioni sindacali. E infatti nascono tanti sindacati myself.
L’idea morotea del primato della politica che deve guidare la società ha più senso oggi?
Nella dialettica politica degli anni 50 Moro sosteneva il ruolo guida della politica rispetto alla società. Andreotti replicava, invece, che la politica dovesse assomigliare alla società. Il 4 marzo del 2018 c’è stata una vittoria andreottiana: la politica che assomigliava alla società ha vinto. Non so se questa specie di impoverimento reciproco di una società che diminuisce di vigore, che vuole essere riconosciuta da una politica debole, possa durare a lungo. Sono due debolezze che si autoalimentano. Un giorno qualche cosa dovrà succedere, perché è impensabile che questo confronto allo specchio possa bastare e durare all’infinito. Il Dorian Gray che si alimenta della sua immagine scoprirà che la realtà è cosa diversa.
E così lo schema conflittuale élite contro popolo sembra destinato a non esaurirsi presto. Quando e come è avvenuto il tradimento delle élite?
C’è sempre stato nella storia italiana un rapporto conflittuale tra élite e popolo. Al di là del dibattito che vede impegnati i direttori dei giornali e gli opinionisti, oggi c’è una novità: il conflitto tra élite e popolo è arrivato a essere tema di gestione politica. Una cosa che non era mai accaduta prima. Il voto del 4 marzo 2018 e il modo di governare che ne è scaturito è chiaramente ispirato dall’idea di cavalcare quel conflitto. Il sospetto del popolo nei confronti delle élite ha origini lontane. Cito sempre un testo di Camillo De Meis, un padre risorgimentale di secondo livello, che dice: in Italia ci sono due popoli, uno che sfanga la vita con il lavoro quotidiano e un secondo che pensa il sentimento del primo e quindi ne è il legittimo sovrano. È una teorizzazione dell’élite non molto lontana dalla logica dell’egemonia gramsciana. Chi ha una visione della società e una capacità egemonica è quello che vince. Questo valeva nel 1840, valeva cent’anni dopo all’epoca di Gramsci, ma non vale adesso, nel senso che il popolo oggi ha una sua capacità autopropulsiva. Non sul piano politico, ma sotto il profilo economico. Il popolo oggi ha una sua logica che le élite non riescono a pensare. Anche io che da oltre cinquant’anni osservo e analizzo la società italiana non sono più in grado di inquadrare, per esempio, il fenomeno attuale dell’economia sommersa, eppure nel 1969 sono stato quello che ha scoperto l’economia sommersa a Prato. Oggi è diverso: tutti secondi lavori, oro cash, la rete. Bisogna rendersi conto, quindi, che il rapporto popolo élite è scomparso all’interno di una cultura molecolare, liquida. Rischiamo di restare nelle mani di questo schema classico che non funziona se non per chi lo cavalca in maniera utilitaristica.
Le forze populiste che spesso dimostrano una evidente inadeguatezza a governare sembrano ancora mantenere il loro consenso.
Nella realtà italiana il consenso viene mantenuto non a lungo, ma per un certo periodo. Servono choc fortissimi perché si perda. Non si capirebbe, per esempio la Democrazia cristiana se non ci fosse questa isteresi del consenso. Parliamo di un partito che ha superato un fenomeno come quello del ’ 68 ma non Tangentopoli. In Italia il consenso si ottiene attraverso processi quotidiani. E anche questo governo è figlio di questi fenomeni. Alle elezioni politiche si sono verificati episodi che mi hanno fatto pensare alla vecchia Dc del periodo d’oro, quando si poteva candidare chiunque e sarebbe stato comunque eletto. È accaduto lo stesso con il Movimento 5Stelle che ha portato in Parlamento molti che fino al giorno prima non ci avrebbero mai pensato.
Anche i candidati alle Europee hanno queste caratteristiche?
Ritorniamo alla cronaca e alla tentazione di mettere in lista personaggi: c’è sempre stata. Basti pensare alla Dc che metteva in lista Amedeo Amadei, il “fornaretto” di Frascati, centravanti della Roma nel ‘ 48. Parliamo di anni di forti scontri politici, ma anche allora la cronaca era presente. Oggi ci sono le Greta, i Simone, ma la coazione psichica è quella. Che cosa va bene per la cronaca? La parità di genere, il medico di Lampedusa, ci hanno provato anche con il sindaco di Riace e così via. Nel messaggio politico dietro alla formazione delle liste c’è sempre stato il tentativo di inserire chi “tira” sulla cronaca.
Siamo allora destinati a quarant’anni di governo gialloverde?
Il ritrarsi dell’onda oggi è molto più veloce. È avvenuto con Matteo Renzi e sta già accadendo con i grillini, ma non in modo così rapido da poter dire che quell’esperienza è finita. Bisogna attendere che i meccanismi del consenso, legati alla vita quotidiana fatta di rabbia e di malcontento, si scompongano o si sfilaccino. Se il rancore resta c’è il rischio che il tabaccaio eletto a Collatino con i 5Stelle un anno fa venga scalzato dal disoccupato di Forza Nuova e così via.
In questo momento, quindi, ha consenso chi cavalca l’onda della paura e dell’odio: una fotografia che il Censis ha scattato in uno dei suoi rapporti.
Esattamente. Gli immigrati e i rom sono simboli che vanno innalzati per ottenere consenso. I rom sono una paura storica dell’Italia. Avevamo individuato il rancore come un fenomeno da ceto medio. Oggi il livello è salito e si è trasformato in cattiveria. Un fenomeno che si è già verificato nelle periferie francesi qualche anno fa, dove la curva del rancore si è innalzata per arrivare alla cattiveria e infine alla violenza.
Gli ultimi episodi nelle periferie romane, come Torre Maura e Casalbruciato, a prescindere dalle loro strumentalizzazioni, restituiscono un malessere che fino a qualche decennio fa era intercettato e interpretato dalla sinistra. Mario Tronti ha scritto del suo disagio di uomo di sinistra di fronte a una sinistra di benpensanti e a una destra di nullatenenti. Quando la sinistra ha perduto il popolo?
La battuta facile sarebbe che la sinistra non sta né nei salotti né nelle periferie. Dire che la sinistra deve stare con gli ultimi è banale. Il leader di questa sinistra senza dubbio è papa Francesco. Ma con queste categorie non si fa più politica. Capisco il disagio di Tronti, un intellettuale intelligente di una certa generazione che si ritrova a interrogarsi su quali siano oggi le categorie per inquadrare la politica. Non più destra e sinistra, ma una società liquida e molecolare. Se pensiamo che già Gioberti nel 1800 paragonava il popolo italiano alla sabbia, oggi questa sabbia è ancora più fina e difficile da tenere insieme. Interpretare una società di questo genere significa dover coinvolgere un tale meccanismo di revisione interna che l’operazione potrebbe paragonarsi a quello che è successo per noi cattolici quando abbiamo accettato la secolarizzazione. Nella nostra società ci sono balzi di liquidità crescente che la classe dirigente italiana non riesce ad accettare e neppure ad aggredire perché le categorie su cui ha speso la sua vita non ci sono più.
L’episodio di Torre Maura ha consacrato un ragazzino di 15 anni a simbolo della sinistra, nel mondo la giovane Greta è diventata la paladina degli ecologisti: che cosa sta succedendo?
Siamo ormai prigionieri delle emozioni della cronaca che ci consegna tutti i giorni. Ma quello che emoziona oggi tra qualche giorno sarà dimenticato e lascerà posto ad altre emozioni. Parliamo di eroi di cronaca.
Torniamo, quindi, a “Prigionieri del presente”, il libro che ha scritto l’anno scorso con Antonio Galdo?
Certamente. Nell’ultimo scritto che racconta i 50 rapporti del Censis faccio un bilancio positivo della nostra esperienza. Mi sono chiesto: chi abbiamo avuto come nemico? E la risposta è stata: nessuno. L’unico vero nemico è stata la cronaca: cancella l’atmosfera culturale, la riflessione sulle cose. Sono una sorta di “talmudista” dilettante, legato al pensiero di Kierkegaard: la cultura sta nel prefisso “ri”, rivedere, ripensare, ritornare. La cronaca invece annulla tutto questo. Se arriva Greta tutto si concentra per un periodo su di lei. Ma poi Greta sarà scalzata da un altro personaggio. E così via.
Professore, ma solo gli uomini di sinistra hanno perso i loro riferimenti?
Tutti. Come cattolico sono sconcertato dalle vicende legate alla pedofilia e alle molestie. Negli anni passati - nessuno lo nega molti preti avevano comportamenti assolutamente criticabili. Però nella cultura cattolica la distinzione tra reato e peccato, come ha sostenuto Paolo Prodi, fratello di Romano, ha rappresentato la modernità. Questo è avvenuto dal 500 in poi su spinta dei papi. Il peccato fa riferimento alla Chiesa, il reato allo Stato. Questo rapporto si sta invertendo e chi esercita il potere sul reato dice al vescovo: se vieni a conoscenza di episodi di violenza lo devi denunciare. Ma il prelato, secondo il suo ordine mentale, ritiene che lo debba correggere, perdonare, allontanare, ma non denunciare. Il primato del sistema del reato sul peccato è una commistione ed è l’esatto opposto di quando il peccato era reato: per esempio chi deviava dalla legge coranica era ammazzato. Due mondi, quello del peccato e quello del reato, che non sanno distinguersi.
La lettura che ha dato Benedetto XVI degli abusi sessuali conseguenza del ’ 68 la trova d’accordo?
La vedo, probabilmente, legata a questioni autobiografiche. Ratzinger è un grand’uomo, ma dal punto di vista umano e personale ha sofferto molto, perché legato al suo rapporto con la sessualità, con il peccato. Penso che Benedetto XVI abbia cercato di capire l’origine di tutto questo: se arriva dalla secolarizzazione, dal ’ 68 o dall’essere umano. Ho lavorato con lui una volta, quando istituì un comitato nella Congregazione della Dottrina della Fede, durato quattro giorni, sulla liceità della guerra. Rimasi ammirato dalla sua personalità, ma colsi questa incrinatura personale che lo portò a dimettersi. Il primo Papa dopo Celestino V.
Da qualche tempo sembra si parli di meno di conflitto generazionale eppure la marginalizzazione sociale dei giovani italiani resta fortissima. Basta dare un’occhiata ai dati sulla disoccupazione. Perché i giovani – che sono stati un elemento essenziale come categoria sociologica e politica del 900 – sono spariti dai radar?
La dimensione generazionale, lo dico con qualche pudore, era falsa. La società non vive su generazioni ma su strutture, su processi, su lotte, su critiche che investono anche i personaggi. La generazione è stato uno strumento di lotta, prima del ‘ 68, di tanta gente che doveva primeggiare magari in un partito. Anche Matteo Renzi, ad esempio, la sua ascesa l’ha concentrata sulla lotta generazionale.