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Da mesi il leader di turno ripete che si parla troppo e troppo presto della prossima presidenza della Repubblica. Qualcuno ancora lo ripete e a pochi giorni dall'ora X verrebbe da replicare, “se non ora quando?”. Di certo, invece, si parla troppo poco e si rischia di pararne troppo tardi di governo. Le due partite sono in realtà una sola e andrebbe chiarito che lo saranno in ogni caso, anche nell'improbabile eventualità che Mario Draghi resti a palazzo Chigi. Non che la sua possibile promozione/ dipartita sia un falso problema. Sarebbe al contrario un elemento di prima grandezza. Però non è il solo problema perché, Draghi o non Draghi, il fatto è che, come segnalava due giorni fa Giorgetti ai suoi fedelissimi, questo governo e questa maggioranza hanno comunque esaurito la loro funzione politica. Il dilemma tra proseguire comunque o scegliere subito la via delle urne si porrebbe comunque. In caso di presidenza Draghi si aggiungerebbe quello, non secondario, di individuare subito un sostituto.
“Subito”, in questo caso, non vuol dire “subito dopo” la fine del torneo quirinalizio ma “subito prima”, almeno nel caso di una convergenza su Draghi. I due nodi vanno sciolti insieme oppure a dominare l'austera assemblea dei Grandi Elettori sarebbe una meno austera e decisamente scomposta paura di doversene tornare a casa. L'elemento è probabilmente meno decisivo di quanto i media non lascino credere ma un peso notevole lo detiene davvero.
Ove il problema si ponesse davvero e la maggioranza restasse quella attuale, come Draghi auspica, la scelta escluderebbe in partenza rappresentanti di partito. L'ala destra della maggioranza non potrebbe accettare la primazia di un Pd come Franceschini o Orlando e viceversa l'ala sinistra, nella quale va incluso il M5S anche se con qualche forzatura, non potrebbe mai dare il semaforo verde a un leghista come Giorgetti. In posizione lievemente differente c'è Brunetta, forzista ormai anomalo e che gioca spesso un ruolo molto rilevante nell'attività del governo ma probabilmente la targa azzurra costituirebbe anche per lui un handicap troppo pesante. La scelta più ovvia sarebbe quella di lasciare tutto com'è promuovendo il ministro dell'Economia Franco e capo del governo. Però si tratterebbe di un passo immenso verso il presidenzialismo. Draghi continuerebbe di fatto a esercitare un condizionamento immenso sull'esecutivo e difficilmente il sostituto ( o la sostituta) di Franco al Mef potrebbe essere scelto prescindendo dalla volontà dell'attuale premier. Dire che ci troveremmo in un semipresidenzialismo su modello francese realizzato praticando l'obiettivo sarebbe probabilmente esagerato ma certo il passo in quella direzione sarebbe da gigante. L'alternativa principale è la guardasigilli Marta Cartabia, seguita dal ministro per l'Innovazione Vittorio Colao. Sulla prima pesa la diffidenza del M5S, dopo la ferita della
riforma della Giustizia, quanto al secondo il quadro non sarebbe molto diverso dall'opzione Franco, sia pure in tinte meno accentuate.
Ma in fondo il toto premier rischia di sviare l'attenzione dall'elemento fondamentale, quello che andrà invece affrontato persino se Draghi resterà premier. Le forze di questa maggioranza non hanno mai stretto un vero patto, pur se limitato negli obiettivi o nel tempo. Si sono limitate ad accettare la premiership di Draghi, decisa da Mattarella, e hanno pagato il costo della loro inesistenza politica perdendo ogni ruolo nell'ultimo anno. Quell'equilibrio non può reggere oltre, comunque non con le elezioni politiche a un passo. Dunque la domanda è casomai se questa maggioranza è in grado di stringere un patto politico per governare il Paese in un anno che sarà difficilissimo. In caso di risposta positiva individuare un premier di garanzia per tutti non sarà un problema insormontabile.
Se invece le forze politiche non saranno in grado di rinnovare e sostanziare l'accordo di maggioranza si porrà un altro dilemma: sciogliere le camere o dar vita a una quarta maggioranza nel corso della legislatura, quel governo “Ursula” senza la Lega che era il sogno della vecchia “maggioranza di Conte”? Quel governo non avrebbe più comunque Draghi alla sua guida. Sarebbe un governo politico e il premier non accetterebbe probabilmente di esserne a capo. Una presidenza del consiglio targata Pd sembrerebbe in quel caso un'opzione quasi automatica ma non è così. Fi faticherebbe ad accettarla. Per il centrodestra sarebbe la fine della coalizione almeno sulla carta unitaria, gli stessi 5S, che comunque sono il gruppo di maggioranza relativa esiterebbero a consegnare lo scettro agli alleati. A quel punto il nome più papabile potrebbe essere davvero quello di Renato Brunetta.