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Nel giro di pochi giorni il M5S ha perso molto più dei due parlamentari che non militano più nei suoi ranghi parlamentari, l'ex ministro Lorenzo Fioramonti, uscito con le sue gambe per dar vita al gruppo verde Eco, e il senatore Gianluigi Paragone, messo alla porta dai probiviri ma avendo fatto di suo tutto il possibile per raggiungere quell'obiettivo. I due “incidenti”, di fatto contestuali e identici pur se opposti nei contenuti, non possono essere paragonati neppur vagamente alle precedenti espulsioni o uscite: quelli erano tutt'al più segnali inquietanti, questi sono l'inizio della deflagrazione finale.
Con l'eccezione di Federico Pizzarotti, sindaco di Parma, tutti gli altri abbandoni, per scelta o per costrizione e quasi sempre per un misto delle due opzioni, avevano riguardato “soldati semplici”, diventati celebri proprio in virtù del loro conclamato dissenso.
Nessuno di quegli ex poteva ambire a porsi come capofila, modello, testa di ponte. Qui il quadro è molto diverso.
Fioramonti poteva essere poco conosciuto per il vasto pubblico prima della nomina a ministro dell'Istruzione nel secondo governo Conte, ma per gli addetti ai lavori non era affatto così: nel governo gialloverde, dove figurava come viceministro sempre all'Istruzione, era comunemente indicato come il migliore in campo nella squadra 5S. Paragone è un notissimo giornalista e conduttore televisivo. Per motivi diversi i due dissidenti sono dunque a tutti gli effetti punti di riferimento per il Movimento, all'interno e all'esterno dei gruppi parlamentari. In entrambi i casi, poi, il dissenso non si appunta su singole scelte, per quanto importanti, ma prende di mira i fondamentali. Sia Fioramonti che Paragone accusano il Movimento di aver tradito se stesso e, pur puntando il dito da sponde opposte, hanno entrambi ragione. Fioramonti rappresenta quell'area di sinistra del Movimento che ha vissuto con fastidio crescente, sin da subito dopo le elezioni del 2018, la realpolitik a cui il M5S si è sempre più acconciato. Paragone è da sempre il modello di quel M5S anti Ue e dunque vicino alla Lega che è stato letteralmente cancellato dalla sterzata decisa da Conte nella primavera scorsa, subìta più che adottata dai 5S.
Non è certo un caso che l'esternazione di solidarietà più fragorosa al senatore sia arrivata proprio da Alessandro Di Battista, la cui insofferenza nei confronti del M5S “istituzionalizzato” da Conte è di giorno in giorno più vistosa: “Gianluigi è infinitamente più grillino di tanti che si professano tali. Vi esorto a trovare le differenze con quello che dicevo io nella campagna elettorale del 33%”. I gruppi parlamentari riflesso di quell'ormai inesistente 33% dei consensi sono da oggi non più solo il formicaio impazzito che conosciamo già da mesi ma terra di conquista e insieme campo di battaglia nel quale si scontrano ambizioni personali e progetti politici diversi e alla lunga del tutto inconciliabili.
Fioramonti, con la sua sinistra ecologista che guarda all'esplosione verde in tutta Europa, e Paragone, con il suo anti- europeismo di fatto leghista, non resteranno in panchina, limitandosi a puntuali ma poco incisive esternazioni come i loro predecessori. Si daranno da fare per raccogliere proseliti e non mancheranno quelli, che sia da un lato che dall'altro, sceglieranno di abbandonare la nave che affonda. Per frenare l'emorragia e mantenere un ruolo sempre più traballante, Di Maio dovrà rivolgersi, come fa già da mesi, all'anima più identitaria, sia pure nel senso più superficiale del termine, del Movimento.
Dalla prescrizione alle autostrade, il ritornello è sempre lo stesso: non si può arretrare di un millimetro, pena lo sfaldamento dei gruppi parlamentari.
Se il Pd, sia pur brontolando, finisce sempre per cedere alle “esigenze superiori” di Di Maio non è solo per debolezza.
Il partito di Zingaretti ha perso in agosto la sua occasione di cogliere una “sconfitta strategica”, quella che gli avrebbe permesso di uscire dalle urne battuto ma con numerosi vantaggi e un avversario vincitore ma costretto a governare in una situazione difficilissima. Ora il Pd può solo combattere per vincere: quindi ha bisogno di tempo e di “colonizzare” i 5S, o quel che ne resterà, trasformandoli in un alleato minore e subordinato. Anche per Zingaretti il Movimento di Grillo è terra di conquista.
Conte, con una spregiudicatezza manovriera ben superiore alle aspettative, ha sin qui usato i 5S come massa di manovra personale, spalleggiando le pretese di Di Maio pur di salvare la sua premiership, civettando però con un Pd a cui è in realtà molto più vicino e omogeneo, adoperando il proprio ascendente sui 5S per rendersi insostituibile e allo stesso tempo istituzionalizzando e normalizzando il Movimento un tempo “populista” per eccellenza. Il doppio disastro degli ultimi giorni e il pronunciamento di Di Battista dimostrano che l'operazione non sarà indolore. Alla fine le probabilità che il caos pentastellato travolga anche il governo sono più che robuste.