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«Ora non resta che continuare a lavorare pancia a terra». Vito Crimi, nominato capo politico del Movimento 5 Stelle giusto in tempo per mettere la faccia sul disastro elettorale, prova a tenere in piedi la baracca con appelli all’unità del partito, evocando non meglio precisati «ideali che ci guidano e ci rendono diversi da tutti gli altri».
La verità è che il M5S si è sbriciolato proprio lì dove aveva costruito le sue fondamenta: in Emilia Romagna, dove nemmeno il candidato governatore, Simone Benini, riesce a entrare in Consiglio regionale. Il grillismo spericolato alla Di Maio, che passa con disinvoltura dal sovranismo all’europeismo, non funziona più. Altro che ago della bilancia. Gli elettori emiliani e quelli calabresi hanno spazzato via dal campo l’opzione “terza via”, la politica dei due forni con la quale l’ex capo politico pensava di traghettare i cinquestelle verso ogni approdo possibile.
I cittadini hanno scelto di polarizzarsi eccome. In Emilia Romagna il M5S non va oltre il 4,7 per cento ( un buon bottino se confrontato col 3,5 del candidato governatore), e in Calabria la corsa di Francesco Aiello, osteggiato dagli stessi maggioranti locali alla Morra, si ferma al 7,3 per cento senza eleggere neanche un consigliere.
E così, il day after si trasforma in un tutti contro tutti, tra un “ve l’avevo detto”, un “le Regionali non contano” e un “serve una riflessione”. Danilo Toninelli, responsabile smemorato delle campagne elettorali grilline che a poche ore dal voto sbaglia persino il nome del suo candidato emiliano, dice di condividere ogni singola parola pronunciata da Vito Crimi e garantisce l’impegno per garantire un futuro migliore alle famiglie in difficoltà. «Questa è la strada giusta, è la nostra strada, anche se non porta voti nell’immediato. In alto i cuori!», argomenta l’ex ministro.
E se il sottosegretario agli esteri, Manlio Di Stefano, mette in guardia il Pd da «bislacche fughe in avanti su ipotetiche “modifiche dell’asse politico del governo”», il fichiano Luigi Gallo liquida la scelta isolazionista di Di Maio: «Dopo dieci anni sappiamo con certezza di non poter cambiare le regioni da soli». Alla “terza via” crede ancora ciecamente solo la vice ministra all’Economia Laura Castelli, mentre l’onorevole Paolo Lattanzio boccia senza appello una strategia fallimentare. «Il ritorno del bipolarismo è un dato di fatto da mesi, a livello globale. Negarlo non significa che non esista, anzi!», scrive su Facebook il deputato M5S, prima di chiarire definitivamente il concetto: «Io credo e auspico, come dico da tempo, che il Movimento si schieri apertamente e definitivamente in un campo progressista di centro sinistra, portando i propri temi e i tratti di novità».
Per una parte sempre più consistente del Movimento, servono alleanze vere anche a livello locale, con una scelta di campo netta e definitiva che collochi il partito nell’area progressista. È la svolta di Bibbona imposta da Grillo la scorsa estate ma mai portata a compimento, su cui ormai convergono esponenti molto diversi tra loro: da Roberto Fico a Paola Taverna, da Stefano Patuanelli a Roberta Lombardi.
Sull’altra sponda, si aspettano le mosse di Luigi Di Maio, Chiara Appendino e Alessandro Di Battista. Le due anime del Movimento avranno modo di fronteggiarsi agli stati di marzo, che a questo punto non potranno non trasformarsi in un congresso vero, l’unico modo per tentare una risalita apparentemente impossibile e non finire nella casella “altri” al prossimo appuntamento con le urne. Come quasi impossibile sarà evitare nuove fuoriuscite, un fuggi fuggi generale alimentato da risultati elettorali impietosi. Qualcuno parla addirittura di possibili scissioni, mentre c’è chi, ormai fuori, si porta avanti col lavoro. Come il senatore Gianluigi Paragone, che pensa di «metter su qualcosa» con i vecchi attivisti dei meet up per dar vita a una nuova forza «anti sistema».
La questione, per ora non impensierisce Crimi, che oggi dovrà incontrare i parlamentari per dirimere parecchie questioni in sospeso. Nessuna analisi del voto, ovviamente, ma cominciare a definire il perimetro del confronto congressuale e, soprattutto, scegliere il nuovo capo delegazione a Palazzo Chigi. Sarà un passaggio determinante per la sopravvivenza del governo. Perché i Il Movimento non sarà morto, come assicura il reggente, ma di certo non si sente tanto bene.