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Chi non ricorda Frankenstein Junior, parodia- capolavoro di Mel Brooks? Una delle gag più riuscite del film è quella di Cloris Leachman che interpreta Frau Blücher, amante del mefistofelico scienziato: ogni volta che uno degli attori pronuncia il suo nome, drappelli di cavalli nitriscono in preda al terrore. In maniera meno farsesca ma assai più incisiva, qualcosa del genere succede da decenni nella storia politica italiana. Ci sono infatti nomi di leader che non possono essere pronunciati: se accade si scatenano reazioni forsennate, al limite dell’isteria parossistica. Sono un socialista, un post comunista e un ex missino: Bettino Craxi, Massimo D’Alema e Gianfranco Fini. Sono assoluti Innominabili, Comandanti in Capo che nel momento del fulgore hanno conosciuto schiere di laudatores e di improbabili imitatori, ritrovandosi circondati da esagitati sostenitori e nugoli di nani e ballerine ( Rino Formica docet) pronti per loro a saltare nel cerchio di fuoco della sottomissione e condiscendenza. Salvo poi subire un meccanismo di rimozione e rinnegamento totale e ferocissimo.
Nei loro confronti vige una Damnatio memoriae sulla quale, come per l’impero di Carlo V, non tramonta mai il sole. Non c’è dubbio che abbiano avuto meriti politici sostanziali e che abbiano altresì commesso errori esiziali. Ma nei loro riguardi vige un meccanismo di mostrificazione che non conosce confini e che sommerge pure i pochi che tentano di articolare giudizi e valutazioni meno pregiudizievoli.
Perché accade questo? Quale nervo scoperto della recente storia nazionale scuote la loro azione, passata e presente? Rispondere non è facile, e tuttavia diventa sempre più necessario per comprendere alcuni dei caratteri salienti degli italiani. Non sfugge, infatti, che a nessun capo politico democristiano sia riservato lo stesso trattamento, pur avendo la Dc governato per decenni con amplissimi margini di intervento ed aver annoverato nelle sue fila personaggi, diciamo così, dotati di grande disinvoltura e intestatari di manovre politiche borderline. Come mai proprio quei tre, dunque?
Cominciamo dalle differenze, una delle quali è decisiva. Craxi e Fini, infatti, sono incappati nella mannaia giudiziaria che ne ha stravolto i connotati politici, deturpandone condotta e memoria. D’Alema no, niente di tutto questo. Seppur lambito da iniziative di Pm indagatori ne è sempre uscito prosciolto e immacolato: in un Paese spesso supino alle lobby, anche con la toga indosso, non è poco e va riconosciuto. Ma, appunto, il filo che li unisce non è giudiziario bensì politico. Tutti e tre hanno raggiunto i vertici del potere e delle istituzioni senza annacquare i loro connotati: al contrario esibendoli. Craxi è arrivato a palazzo Chigi rompendo la teoria di presidenti del Consiglio scudocrociati ( c’era stato il precedente del repubblicano Giovanni Spadolini ma la caratura del capo socialista era superiore) e scuotendo dalle radici la primazia del primo partito italiano sulla scorta di revisioni ideologiche e rivisitazioni storiche: ma nessuno ha mai neanche potuto immaginare di non considerarlo un esponente del socialismo tricolore.
Massimo D’Alema pure si è seduto sulla poltrona di capo del governo: è stato il primo e forse resterà l’unico post- comunista ad averlo fatto. Anche nel suo caso, nessuno ha mai potuto accusarlo di aver raggiunto il traguardo ripudiando le sue radici, disconoscendole per strumentalità o bramosia di incarichi. Al contrario chi favorì la sua ascesa nel Sancta sanctorum della stanza dei bottoni governativa come l’allora ex capo dello Stato Francesco Cossiga, lo motivò esattamente con il bisogno di chiudere con la conventio ad excludendum nei confronti degli ex comunisti, incomprensibile e antistorica nel momento in cui erano crollati il Muro di Berlino, era finita la guerra fredda e archiviata la divisione Est- Ovest. Insomma D’Alema arrivò a palazzo Chigi tirando il filo di una tradizione che metteva insieme Togliatti, la Bolognina e la spinta a voler «considerare la grande anomalia politica italiana tutta finalmente alle nostre spalle», come disse nel discorso sulla fiducia alla Camera presentando il suo governo.
Anche Gianfranco Fini è giunto al vertice delle istituzioni dopo aver sfiorato quello dell’esecutivo: vicepremier e ministro degli Esteri nei governi Berlusconi. Come per D’Alema, nessuno prima di lui in quanto ex missino si è seduto sulla poltrona più alta di Montecitorio. Sulla base del viatico di Giorgio Almirante, Fini ha costituzionalizzato la destra italiana spezzando per sempre “l’arco” che escludeva gli ex missini dalla competizione per il governo. Un merito enorme perché ha consentito a milioni di elettori di entrare a pieno titolo nel circuito democratico abbattendo un’altra anomalia, stavolta a destra: la più dolorosa, per la presenza del capitolo fascista. Nei giorni scorsi molti si sono esercitati nel doveroso ricordo di Pinuccio Tatarella, mentore della “Destra di governo” e per decenni ispiratore, non senza passaggi contrastanti, della leadership finiana. Giusto tributare omaggi ad un esponente politico dotato di enormi capacità. Impossibile non sottolineare che l’azione di Tatarella non avrebbe avuto senso o possibilità di dispiegarsi se non ci fosse stato Fini quale front- man della Destra. Nessun altro esponente ex missino, infatti, avrebbe potuto svolgere il ruolo di leader capace di rivolgersi agli italiani senza pagare dazio alla sua provenienza. A questo punto bisognerebbe aprire il capitolo degli errori e delle omissioni dei tre Innominabili: tralasciamo, sapendo che sono tanti che si azzuffano per scriverlo. Resta che finché la politica non farà pace con queste leadership e con i loro lasciti, resterà un’incompiuta. Sono state tre esperienze che, ciascuna a modo suo - e, di nuovo, con limiti e insufficienze anche gravi - hanno puntato ad innovare: forse è proprio questa la colpa che frotte di malmostosi nuovisti non riescono a perdonare loro. Craxi, D’Alema e Fini sono simboli di un Paese che non assolve chi ha avuto successo e poi l’ha perso. Più comodo farli diventare capri espiatori di colpe diffuse. Meglio esorcizzarli invece di farci i conti. Spingerli nell’indefinito di una Nazione che preferisce perdere la memoria piuttosto che affrontarla.