Sono sempre i particolari a indicare il senso della totalità di un tema. Il particolare eloquente in questione è il nome del Piano di riarmo proposto dalla presidente von der Leyen. Il nome era bellicoso, esplicito, a modo suo onesto: ReArm Europe. Questo aveva in mente la presidente e questo era nell’interesse della Germania e questo recitava il titolo del Piano. L’Italia aveva chiesto di modificarlo in Defend EU, per chiarire che «il dominio della difesa va molto oltre l'acquisto o la produzione di armi». Era una richiesta sensata anche se l’Italia faceva trapelare l'intenzione di usarla per forzare di molto i confini del progetto, sino al finanziamento delle forze dell’ordine e all'immigrazione in nome dell'assioma per cui «la prima difesa è la difesa dei confini».

Rigida, la presidente Ursula si è rifiutata di modificare il nome, salvo poi ripensarci quando anche altri Paesi hanno manifestato il loro dissenso. Il ReArm è diventato così Readiness 2030, Prontezza 2030, probabilmente il titolo più anonimo che sia venuto in mente ai cervelloni di Palazzo Berlaymont: pronti a che cosa? Segreto! La formula in questione di sensato non ha invece niente. Può rispondere infatti a una sola esigenza: quella di mascherare agli occhi dell'opinione pubblica di alcuni Paesi un progetto di riarmo considerato impopolare.

In sé secondario, il fattarello è in realtà rilevante perché indica che l’Unione è ancora avviluppata nella ragnatela di interessi particolari che la paralizza da sempre. Non è in grado di muoversi con efficacia e drasticità perché non sa come comporre gli interessi contrastanti dei 27 Paesi. Sulla carta la scelta del riarmo è condivisa da tutti. Sul finanziamento del progetto invece non c’è condivisione di sorta. Il problema posto dall’Italia già nel corso del precedente Consiglio straordinario e informale, il fatto cioè che con gli strumenti scelti da von der Leyen il debito ricade tutto sulle spalle dei singoli Stati a solo vantaggio di chi dispone di ampio spazio fiscale, è stato sollevato da mezza Unione, inclusa la Francia. Se ne dovrebbe riparlare tra 40 giorni, data fissata come termine per scegliere se adottare o meno la possibilità di addossarsi ulteriore deficit senza incorrere nei rigori del Patto di Stabilità. Parigi ha già deciso per il non uso di quello strumento. Roma mette le mani avanti e sottolinea che il termine è troppo vicino. In campo c'è anche la proposta Meloni di ricorrere a investimenti privati garantiti non dai singoli Stati ma dall’UE. Proposta sgradita però da molti a Bruxelles e a Berlino. Le chances di arrivare a una soluzione entro aprile, o entro giugno per quanto riguarda i 150 miliardi di prestiti europei, anch'essi ballerini, sono molto vicine allo zero.

Quadro persino più desolante sull’Ucraina. Ufficialmente tutti, tranne l’Ungheria, giurano che resteranno con Kiev sino alla fine (non essendo però specificato cosa si intenda per «la fine»). Ma la proposta dell’Alta commissaria Kallas di stanziare 40 miliardi per le armi all’Ucraina è finita subito nel cestino. Ne sono stati stanziati 5 e solo per i proiettili. Che la proposta Kallas fosse destinata a essere ridimensionata era chiaro anche alla vigilia, ma questo va molto oltre anche il più drastico ridimensionamento. Von der Leyen, del resto, fa filtrare di non condividere la proposta dell’Alta commissaria, avanzata senza consultare la presidente. La quale peraltro, a propria volta, aveva evitato di concordare con la responsabile della politica estera dell’Unione il suo piano di riarmo. L’Europa è relegata oltre i margini della trattativa sull’Ucraina non solo e non tanto perché poco armata, o più precisamente armata in modo caotico e dissipatorio, ma perché per tre anni è stata inesistente, senza mai azzardare una propria ipotesi autonoma, senza intraprendere iniziative di sorta. Apparendo, ed essendo, superflua. È destinata, per la via che ha imboccato, a esserlo sempre di più. Per qualcuno tuttavia la palude europea è un lieto evento: per Giorgia Meloni.

La premier italiana dovrebbe trovarsi in condizioni disperate proprio sul fronte sin qui più fortunato, quello della politica estera. Non può sottoscrivere il piano di riarmo, perché la Lega si ribellerebbe. Non può neppure bocciarlo, perché in quel caso a insorgere sarebbe Forza Italia. È nei guai sino al collo o lo sarebbe se dovesse vedersela con una situazione tanto chiara da rendere impraticabili o almeno difficilmente praticabili soluzioni all’insegna dell’ambiguità. Per sua fortuna e per grazia dell’eterna insipienza europea, così proprio non è.