Berlusconi ci prova come può: «Il centrodestra è ineliminabile in Italia. Quindi dobbiamo sempre andare d’accordo». Già la sera prima, mentre tra carroccio e partito azzurro volavano gli stracci, era uscito con un’intervista mielosa sull’Huffington Post, negando ogni tensione con Salvini. Quale guerra? Nient’altro che la normale dialettica tra alleati.

Ma Salvini non la pensa allo stesso modo e anche lui si pronuncia a mezzo intervista: «Non siamo noi a volere la fine del centrodestra. Ma se Fi non è d’accordo su niente se scegli il Pd e vuole fare un partitone Pd- Fi, faccia pure. Auguri». E poi: «Non fermo più che vuole lasciare Forza Italia per la Lega». Il problema però non è solo Salvini. E’ anche il grosso dello stato maggiore azzurro.

La realtà è che mercoledì, il giorno della rottura sul cda Rai, il leader avrebbe preferito una linea molto meno bellicosa. Alla fine del colloquio con il vicepremier leghista, che si era recato a trovarlo al San Raffaele, Berlusconi propendeva per cercare un accordo sulle direzioni che permettesse a Fi di votare Foa in commissione di vigilanza in una secondo tentativo, che Salvini già dava per certo. Stavolta i suoi non lo hanno seguito. A bloccare tutto e di fatto a imporre lo scontro sono stati Confalonieri, Letta, Tajani, Gasparri, Mara Carfagna, Anna Maria Bernini. Di fatto l’intera Fi antileghista, quella che negli ultimi mesi aveva vissuto con crescente sofferenza l’invadenza dell’alleato persino sul fronte dell’immigrazione, bersagliato ormai quotidianamente con messaggi di segno opposto a quelli salviniani.

Il cavaliere avrebbe preferito una linea più diplomatica. Il suo disegno era e resta quello di sostituire M5S nella maggioranza. Da mesi si industria di acquisire consensi in vista di una rottura tra i 5S e il carroccio della quale è certo e che del resto la stessa Fi fa il possibile per accelerare. Ma per questo è necessario evitare una rottura clamorosa con Pontida.

Proprio questa linea è oggi stretta in una tenaglia. Da una parte lo stato maggiore del partito, che teme di essere risucchiato dalla Lega, ma dall’altra lo stesso Salvini, che per il momento non ha alcuna intenzione di rinunciare a questa maggioranza ben sapendo che in una maggioranza di centrodestra avrebbe vita molto più difficile sui fronti decisivi del rapporto con l’Europa, dunque delle riforme economiche, e dell’immigrazione di quanto non abbia invece con Di Maio.

Lo stesso capo leghista, dunque, fa ben poco per salvare l’alleanza. Mira invece sfacciatamente a rubare quante più aree di consenso azzurre possibile. Ieri Mulè ha smentito sia tensioni tra Tajani e Berlusconi che fughe dagli spalti azzurri verso il Carroccio. Se si guarda alla tolda di comando Mulè è sincero. Tranne La De Girolamo, sempre più vicina a Salvini, e Toti, eternamente pencolante tra i due porti, i leader azzurri sono fermi in una linea che si avvicina sempre di più all’aperto antileghismo, tanto che Brunetta sostiene ora senza perifrasi che bisogna sostenere le posizioni di Tria contro le forzature del resto del governo. Si scrive Tria ma si legge Bruxelles.

Ma nei territori, tra i dirigenti locali la situazione è ben diversa. Lì il rischio dell’emorragia è invece concretissimo, a Salerno, in Ciociaria, in ampie aree del sud la marcia di avvicinamento alla Lega procede a tappe forzate. «Registriamo una valanga di richieste di partecipazione da parte degli eletti di Fi», afferma il sottosegretario leghista agli Esteri Picchi ed esagera solo in minima parte. Per Salvini l’importante è questo. Non sono gli ufficiali, la cui presenza creerebbe anzi parecchi problemi, a interessarlo, ma il corpo intermedio del partito, i signori delle preferenze che trascinano soprattutto a sud migliaia di voti. Anche per questo Berlusconi, che ha al solito più acume politico dei suoi consiglieri, avrebbe preferito di gran lunga evitare la rottura. Ma ormai ricucire è quasi impossibile, soprattutto perché né Salvini né i suoi ufficiali hanno alcuna intenzione di farlo.

Ma il gioco è rischioso anche per il leghista. Se la frattura dovesse diventare irrecuperabile si troverebbe privato di quel secondo forno che gli ha permesso sinora di dettare legge anche a un partito in parlamento molto più forte come quello di Di Maio.