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Capisco, per carità, le ragioni, esigenze e quant’altro dell’opposizione praticata al governo dal Pd, sfuggito per fortuna alle tentazioni di un accordo post– elettorale con i grillini. Che lo avevano sin troppo sfacciatamente scambiato per un forno di riserva, anzi come un forno concorrente con quello leghista per fare quadrare i conti in un Parlamento in cui essi erano arrivati senza i numeri necessari per fare da soli.
Capisco anche le ragioni di risentimento persino personale che i dirigenti piddini più accorti, quelli appunto contrari a fare da spalla ai grillini, possono avvertire verso i protagonisti del governo in carica. In particolare, verso un Matteo Salvini che non perde occasione per attaccare anche sul versante migratorio il Pd pur raccogliendo in buona parte i buoni frutti di ciò che prima di lui al Viminale aveva seminato Marco Minniti. Il quale aveva fatto uscire il problema degli sbarchi dalle dimensioni e condizioni di emergenza in cui l’aveva raccolto. E ciò anche a costo, parlando sempre di Minniti, di sentirsi poi rivolgere, a elezioni avvenute, l’ingenerosa e pubblica accusa del presidente del partito Matteo Orfini di avere contribuito alla perdita di voti dando “una lettura di destra” al fenomeno così drammaticamente avvertito da tanta parte della gente comune.
L’altro protagonista del governo, il grillino Luigi Di Maio, ha fatto e fa ancora peggio di Salvini contro il Pd. Si era appena cominciato a contare a Genova il numero dei morti e dei feriti nel crollo del viadotto Morandi e già il vice presidente pentastellato del Consiglio cercava a Ferragosto di scaricarne in qualche modo la responsabilità anche sul Pd per presunti finanziamenti elettorali ottenuti, peraltro insieme con altri partiti, compresa la Lega, dai concessionari dell’autostrada, come se fossero stati proprio quei soldi a impedire ai Benetton di mantenere bene il ponte.
Eppure, con tutta la comprensione – ripeto – che merita l’opposizione del Pd al governo in carica, non capisco perché mai – Dio mio – al Nazareno e dintorni si siano lasciati scappare un’altra occasione per difendere il primato della politica di fronte all’ennesima invasione di campo della magistratura. Tale considero infatti l’intervento a gamba tesa di una Procura della Repubblica nella vicenda dei migranti bloccati per alcuni giorni nel porto di Catania su un pattugliatore della Guardia Costiera, e infine sbarcati con varie destinazioni.
Dall’intervento della Procura di Agrigento sta nascendo un procedimento giudiziario a Palermo, gestito nella cornice del cosiddetto tribunale dei ministri, contro Salvini e il suo capo di Gabinetto per sequestro di persona, arresto illegale e abuso d’ufficio. Che per andare avanti – per fortuna, dico a questo punto – avrà bisogno di un passaggio al Senato.
Il fastidio che mi procurano lo stile e spesso anche le scelte di Salvini non mi impedisce di considerare quanto meno curioso il sequestro ravvisato nella permanenza dei migranti su una nave militare italiana che li aveva soccorsi, e salvati da morte per naufragio, nelle acque tra Malta e la nostra isola più vicina. Considerare costoro detenuti mentre Salvini li faceva trattenere cercando di concordarne prima la destinazione verso più Stati non mi convince per niente, a meno che la prova non consista nel fatto che tra le numerose visite sulla nave attraccata al molo Levante di Catania, con tanto di autorizzazione di Salvini e con tutti i riguardi del comandante, ve n’è stata anche una della rappresentante del “garante nazionale dei detenuti”. Sembra una barzelletta ma il fatto è vero. E da solo dovrebbe bastare e avanzare per avvertire il carattere paradossale di tutta la vicenda, anche di quella giudiziaria.
Per quanto riguarda l’abuso d’ufficio contestato al ministro dell’Interno e al suo capo di Gabinetto, mi attengo al paragone che una volta l’insospettabile Pier Luigi Bersani, commentandone uno contestato a un sindaco grillino, fece con il sovraccarico di un camion per il conducente.
Vedere anche il Pd cavalcare contro Salvini il procedimento giudiziario avviato contro di lui, o solo evitare di sollevare dubbi sulla sua consistenza e opportunità, mi ha procurato un senso di delusione e amarezza. Così anche per il rimprovero un po’ banale e scontato – diciamolo pure – fatto a Di Maio di difendere adesso il suo collega di governo Salvini, pur a modo suo, dopo avere reclamato le dimissioni dell’allora ministro dell’Interno Angelino Alfano, raggiunto anche lui da un’accusa di abuso d’ufficio. Mi è sembrato di stare all’asilo Mariuccia.
Il Pd ha così preferito lasciare al solo, o quasi, e solito Silvio Berlusconi, forse per timore di confondersi con lui, il compito di esprimere dall’opposizione critiche e riserve politiche sull’ennesima sovrapposizione giudiziaria alla politica. E non mi si dica, per favore, che bisogna pur rendersi conto – come dicono i soloni – dell’obbligatorietà dell’azione penale stabilita dalla Costituzione, come se i magistrati non disponessero di alcuna discrezionalità.
Da quarant’anni mi chiedo dove e come fosse stata applicata l’obbligatorietà dell’azione penale nei riguardi di Romano Prodi. Che durante il sequestro di Aldo Moro segnalò Gradoli – nome non di una località nel Reatino, dove furono mandate inutilmente le forze dell’ordine, ma di una strada di Roma dove c’era la base terroristica di Mario Moretti, il capo dell’operazione delle brigate rosse – dicendo di averne raccolto l’indicazione con amici in una seduta spiritica.
Se quella storia l’avessimo raccontata io o Sansonetti, che allora lavoravamo, rispettivamente, al Giornale e all’Unità, saremmo finiti in una cella, e chissà per quanto tempo, con tutte le norme antiterroristiche vecchie o appena varate. Prodi invece nell’autunno di quello stesso anno – il 1978 – divenne ministro dell’Industria nel quarto governo di Giulio Andreotti. E sarebbe stata solo la prima tappa di una lunga carriera politica, interrotta nel 2013 sulla soglia del Quirinale per un centinaio di “franchi tiratori” del Pd, non certo mossi dal desiderio di vendicare quella seduta spiritica, ma da altri e più banali obbiettivi.