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Che siano stati molti o pochi, spontanei oppure organizzati, gli applausi genovesi per i governanti in realtà cambia pochissimo. I percorsi degli eventi che assumono valenza simbolica e vanno quindi molto oltre la loro portata sono spesso obliqui, trascendono le emozioni ribollenti o i calcoli gelidi che li avevano ispirati all’origine. Il portato simbolico di applausi che, quasi per la prima volta nella storia patria delle contestazioni funebri, premiano chi governa e penalizzano chi si oppone è innegabile e imponente. Dovrebbe consigliare ai fischiati riflessioni ben più articolate e complesse di quelle sin qui squadernate nonostante le numerose sconfitte e le sirene d’allarme che ormai da anni suonano a distesa.
Perché in Italia i funerali pubblici sono sempre stati occasione per dare sfogo a rabbia, indignazione, sfiducia nelle istituzioni che non avevano saputo evitare quei sinistri. Non capitò, ed è significativo, ai funerali della scorta di Aldo Moro, nel 1978. Qualche fischio ci fu ma la reazione del popolo dolente fu soprattutto quella di stringersi intorno alle istituzioni. Quei cinque agenti erano stati uccisi per dare scacco alle istituzioni stesse. Fischiarle, rinfacciar loro il non aver saputo proteggere né il rapito né gli ammazzati avrebbe voluto dire fare il loro gioco, e comunque il controllo dei partiti di massa, in quell’occasione, si dimostrò forse per l’ultima volta ferreo. Tutt’altra situazione, poco più di due anni più tardi, il 6 agosto 1980. Piazza Maggiore e tutte le vie circostanti erano stracolme. I rappresentanti del governo, guidati dal premier Francesco Cossiga, furono ac- colto con fischi e proteste. Solo a due persone la piazza ferita e furente riservò un trattamento opposto: al sindaco Zangheri, individuato come simbolo della città straziata, e soprattutto al presidente della Repubblica Sandro Pertini.
Fu anche quella una rottura simbolica di dimensioni notevoli. Per la prima volta un capo dello Stato veniva individuato, amato ed esaltato come altra cosa rispetto al sistema dei partiti, al Palazzo, al potere. Per la prima volta un presidente della Repubblica incarnava non il simbolo dello Stato contestato ma la sua controparte, l’alternativa, la luce contrapposta al buio. Proprio questo, del resto, aveva voluto essere Pertini nei primi anni della sua presidenza, e avrebbe proseguito sino alla scadenza del mandato.
Non furono solo fischi, invece, quelli che accolsero le autorità, a partire dal presidente del consiglio Giovanni Spadolini, nella chiesa palermitana di San Domenico, dove si celebravano i funerali del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, ucciso da Cosa nostra con la moglie Emanuela Setti Carraro il 3 settembre 1982. Furono spinte e urla e lanci di monetine, furono quasi scontri tra la polizia schierata a difesa dei fischiati e la folla rabbiosa. Si salvò, anche in quell’occasione, solo Pertini e in un’omelia destinata a fare il giro del mondo il cardinal Pappalardo trovò le parole che riflettevano quella desolata furia, citando Tito Livio: “Mentre a Rome si discute, Sagunto viene espugnata”.
Nella stessa chiesa, il 25 maggio 1992, per i funerali di Falcone e della scorta, i politici dovettero rinunciare a entrare dal portone principale. Furono accolti tutti, nessun escluso, da urla e insulti. Per tutti le stesse grida, “Vergogna”, “Buffoni”, quasi in diretta tv. Nelle interviste volanti anche la spiegazione di tanta rabbia era la stessa: “I politici sono gli assassini”.
Nemmeno due mesi dopo fu la volta dei funerali della scorta di Borsellino, il 21 luglio. Quelli del magistrato si svolsero tre giorni più tardi, in forma privata: la famiglia aveva rifiutato l’omaggio di Stato. Non fu una ripetizione delle esequie di maggio. Fu molto peggio. La folla ruppe i cordoni della polizia, strinse d’assedio i politici presenti. Il capo dello Stato fresco d’elezione, Oscar Luigi Scalfaro, fu salvato a stento. I tg registrarono e diffusero le immagini ovunque. Tangentopoli era iniziata da poco, nessuno ancora immaginava che di lì a pochi mesi avrebbe travolto l’intera prima Repubblica. Ma a saperle guardare sarebbero bastate quelle immagini per capire cosa c’era dietro l’angolo: nessun ceto politico può sopravvivere a un discredito giunto a quelle dimensioni.
I funerali di Genova raccontano qualcosa di simile. Indicano quanto vasto, generalizzato e insanabile sia l’impopolarità della classe politica che ha governato l’Italia dagli anni ‘ 90 in poi. Le ovazioni per il governo forse, e in parte certamente, erano preparate. I fischi per i governanti di ieri no.