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È impossibile non rilevare che quella che si celebra oggi è un festa della Repubblica diversa dalle altre. Primo, perché arriva in una fase di pandemia globale mai sperimentata in precedenza, fortunatamente in fase regressiva ma tuttavia destinata a modificare aspetti essenziali della vita di tutti noi. Secondo, perché questa situazione ha provocato uno sfaldamento del sentimento di appartenenza nazionale come in nessun altro caso. Nel referendum di 74 anni fa, il Paese si spaccò in due, sempre Nord contro Sud, e appena due milioni di voti di differenza decretarono l’esilio dell’ultimo re. Tuttavia è impossibile negare che chi votò per il nuovo assetto istituzionale lo fece convinto che solo un’Italia unita e coesa avrebbe potuto affrontare le terribili prove del dopoguerra. Quel sentimento fu trasfuso due anni dopo nella Costituzione del 1948, nell’articolo 5 che definisce la penisola “unica e indivisibile”. Il Covid 19 e le durissime prove che hanno dovuto sopportare i cittadini hanno lacerato il tessuto territoriale e scosso la coesione nazionale. Abbiamo visto presidenti di Regione battagliare l’un contro l’altro e insieme contro lo Stato, e Comuni e piccoli tetragoni nella difesa del loro particolare. Il sistema sanitario pubblico, seppur con inevitabili incertezze, ha dato buona prova di sé. Assai meno gli amministratori, indipendentemente dal colore politico. Per non parlare degli scienziati, repentinamente diventati starlette tv, oracoli cui attingere verità e certezze, dimenticando che la scienza procede per prove ed errori, e gli studiosi mai sono assimilabili ad ayatollah. E ora l’onda distruttiva si abbatte sul sistema economico- produttivo, mettendo ancor più in tensione il sentimento unitario di collettività. Davvero c’è chi pensa che si possano affrontare prove così tremende ulteriormente accentuando le divaricazioni: maggioranza contro opposizione, Nord contro Sud, Regioni vs Stato centrale, sindacati contro imprenditori? È un 2 giugno diverso. Ma è l’unico che abbiamo. Bisogna custodirlo con amore e accortezza. Per non ripetere gli errori del passato, per non disperdere il patrimonio di democrazia e civiltà che i milioni di morti della guerra ci hanno consegnato. La priorità da salvaguardare è il rispetto dell’altro. Ribadendo che la ricerca di convergenze non è un giochino da salotto: piuttosto il cemento di ogni sistema democratico. Ancora una volta le parole più sagge arrivano dal Quirinale con l’invito «all’unità morale, alla condivisione di un unico destino, il sentirsi responsabili l’uno dell’altro». Non c’è altro da aggiungere.