Tra una riforma (abuso d’ufficio) e una controriforma (decreto sicurezza), il ministro Carlo Nordio trova il modo di lanciare sassolini preziosi legati alla sua conoscenza, per esperienza, di trucchi e trucchetti dei pubblici ministeri. Uno di questi sassolini è passato inosservato, non perché sia sfuggito al protagonista, Giovanni Toti, o al suo legale Stefano Savi, ma perché pareva solo una frase come un’altra buttata lì, in un’intervista al Giornale, il cui tema principale era un altro.

Sul patteggiamento dell’ex governatore della Regione Liguria il guardasigilli così aveva commentato: «…da ex pm posso solo dire che molti imputati patteggiano per evitare le estenuanti e costose sofferenze del processo…». E poi però, in cauda venenum: «Tuttavia potrei anche invertire la questione, e domandarmi perché i magistrati abbiano accettato un patteggiamento su un reato minore, dopo anni di intercettazioni - complesse e temo assai costose - che ritengo siano state chieste e autorizzate per reati ben più gravi».

Il succo del “caso Toti” è tutto qui. E lo straordinario è che ce lo dica un ministro che ha anche nel suo passato 40 anni trascorsi a fare il pm. Se esaminiamo la sequenza, dall’inizio dell’inchiesta alla sua sostanziale fine, perché già a Genova si prevede un diluvio di piccoli e grandi patteggiamenti, non si può che fare alcune ovvie constatazioni. La prima è che l’unico vero risultato raggiunto dopo gli arresti del 7 maggio scorso è quello politico. La Liguria non è più governata da chi era stato scelto dagli elettori e il 27 e 28 ottobre prossimi i cittadini andranno di nuovo alle urne. Di processi non se ne vedono all’orizzonte, e neanche di mafiosi in ceppi.

E sì, perché non va dimenticato prima di tutto che il punto di partenza di questo caso giudiziario è un’inchiesta per corruzione e voto di scambio con l’aggravante mafiosa. Ma gli unici tre indagati perché sospettati di aver avuto rapporti con una cosca, non sono mai stati privati della libertà personale. In compenso, il bollino blu dell’ “antimafia” ha consentito lunghe indagini e intercettazioni molto invasive, giorno e notte. Con il presidente della Regione per tre mesi sempre ai domiciliari, il cui annullamento veniva respinto con motivazioni che parevano sempre più pretestuose. Prima perché avrebbe potuto ripetere il reato in occasione delle elezioni europee, poi delle regionali future (tra un anno), infine, nell’ordinanza dei giudici dei riesame, perché lui, Giovanni Toti, era fatto così e non avrebbe potuto che replicare la sua condotta di amministratore corrotto. Parlare di sproporzione è poco, e lo scandalo è emerso nei giorni del patteggiamento. Con la proposta da parte della procura, poi saggiamente accettata dalla difesa, di accordarsi su un reato “minore”, anzi minimo, la cui contestazione all’inizio delle indagini non avrebbe comportato né custodia cautelare né probabilmente le stesse intercettazioni, la procura di Genova ha tenuto uno di quei comportamenti che sono oggetto dei sassolini del ministro Nordio.

Perché gli inquirenti hanno dovuto alla fine ammettere che Toti non è un corrotto, che non ha mai intascato denaro, ma anche che tutti gli atti amministrativi compiuti dalla sua giunta erano legittimi. Così come trasparenti erano i versamenti erogati dall’imprenditore Aldo Spinelli alla sua lista elettorale. È il collegamento tra le due attività, quella amministrativa e quella di liberalità, che i magistrati ritengono configuri il reato. Ma l’ipotesi avrebbe retto in un processo? E dovremmo considerare davvero normale la sproporzione tra arresti, intercettazioni, dimissioni e il finale “bagatellare”, se non per il risultato politico?

È quel che si domanda, con i suoi sassolini, il ministro Nordio, che ogni tanto ne lascia cadere qualcuno, sempre in situazioni in cui si parla d’altro. Come quelli del “fascicolo clonato” e del “fascicolo virtuale”. Alla base di questi altri fenomeni, che a quanto pare sono moto diffusi, c’è sempre la pratica del “tipo d’autore”. Quello per cui non è il reato a essere preso di mira dalle indagini, ma la persona ritenuta pericolosa. Non necessariamente un politico o un amministratore, potrebbe anche essere un immigrato o comunque un soggetto asociale. L’anomalia consiste nel fatto che se ne chiede la punizione non per quello che ha fatto o che si sospetta abbia fatto, ma per quello che è, a prescindere dalla commissione del fatto. In questi casi, ci dice il sassolino di Nordio, basta tenere nel cassetto un fascicolo che ipotizza un reato inesistente, ma che consenta di chiedere e ottenere le intercettazioni. Il grimaldello che apre ogni porta è l’aggravante mafiosa. Non importa se poi cadrà in corso d’opera, perché nel frattempo provvedono le intercettazioni a fare il loro “sporco lavoro”. Ma il re dei sassolini resta quello del “fascicolo clonato”, quello che ha consentito e continua a consentire che un gruppo di pm, a partire dalla Sicilia per poi approdare a Firenze, continui a indagare Silvio Berlusconi, o il suo ricordo, insieme a Marcello Dell’Utri come mandanti delle stragi mafiose di trent’anni fa.

Questo fascicolo è stato clonato ormai cinque volte. Si fa così, ci ha spiegato il ministro. Ogni volta in cui non si riesce a trovare prove nei confronti di un soggetto (tipo d’autore) e si è costretti a chiedere l’archiviazione, si tiene nel cassetto un pezzetto di carta e si attende l’occasione per farlo fruttare. Può essere l’arrivo insperato di un gelataio o la presunta violazione di un atto amministrativo relativo alla denuncia dei redditi. Tutto fa brodo per tenere una persona indagata a vita, come è per Dell’Utri, o anche post mortem, come per Berlusconi. Clonando e clonando pezzi di carta. Un sassolino dopo l’altro.