C’è un protagonismo di Forza Italia. C’è la forza – e il potere – di Giorgia Meloni. E poi c’è la Lega. Sempre più in rincorsa e in affanno, rispetto agli alleati. Vale per tutti gli ambiti dell’agenda politica, e la fatica nel parare gli attacchi sull’unico dossier immediatamente riconducibile al Carroccio, l’autonomia, lo conferma. Naturalmente l’affanno e lo svantaggio rispetto ai partner di governo riguarda anche, e in modo sempre più chiaro, la giustizia. Sui temi principali della politica giudiziaria, dalla separazione delle carriere al carcere, e alla riforma penale appena entrata in vigore, incluso l’addio all’abuso d’ufficio, il partito di Matteo Salvini non pare mai davvero protagonista.

Nella geografia della maggioranza dovrebbe rivestire il ruolo di forza intransigente e securitaria. Ma è una parte piuttosto debole, marginale, in ribasso, sia nella dialettica sul penale che rispetto alla riforma della magistratura. È complicato, per la Lega, rivendicare il ruolo di guardiani del rigore anche considerato che solo due anni fa aveva meritoriamente sostenuto i referendum garantisti del Partito radicale, poi risucchiati nel solito buco nero del quorum irraggiungibile.

Insomma: l’anima securitaria della Lega c’è, è indiscutibile, si manifesta in modo discontinuo ma netto su materie come il carcere – basti pensare che la chiusura a qualsiasi sconto di pena è venuta innanzitutto dal sottosegretario alla Giustizia del Carroccio, Andrea Ostellari –, ma non è che si tratti di una bandiera in grado di assicurare a Salvini, come forse in passato, chissà quale popolarità. Almeno in una parte dello stesso elettorato di destra, l’idea che non si possa lasciar morire la gente nelle prigioni, tra suicidi e assistenza sanitaria inadeguata, si fa sempre più strada. Non foss’altro perché la matrice cattolica, postdemocristiana, popolare e a volte clericale, fra tifosi e simpatizzanti del centrodestra, non si è ancora del tutto estinta.

A ben guardare, a rileggere le frasi più significative pronunciate negli ultimi mesi o anche nell’ultimo anno da Matteo Salvini a proposito di processi e magistrati, lo slogan davvero ricorrente è “serve una riforma della giustizia”. Quasi sempre successivo a iniziative, o a vicende poco commendevoli, provenienti dall’ordine togato. L’episodio più “caratterizzante” del rapporto contrastato fra la Lega e la magistratura resta la vicenda della giudice catanese Iolanda Apostolico, bersagliata da Salvini in prima persona con l’enfasi data sui social alle immagini che ritraevano la magistrata tra la folla di manifestanti in occasione del “sequestro” della nave Diciotti. Da lì, Salvini ha preso spunto per insistere sulla necessità di spazzar via la politicizzazione e la presunta faziosità di pm e giudici. Idea che ha trovato nella riforma di Nordio sulla separazione delle carriere il solo possibile corrispettivo ordinamentale.

C’è però un dettaglio: la separazione delle carriere è la bandiera di Forza Italia. Il protagonismo, in quell’ambito, è di Antonio Tajani e degli azzurri. Non di Salvini. Che così si ritrova a non avere un personale obiettivo, nel campo della giustizia: l’unico che poteva coltivare, è fatalmente intestato al partito moderato e garantista della coalizione. In che modo la Lega possa provare a riacquisire una propria identità, in ambito giudiziario, è difficile immaginarlo. È difficile pensare a una terza via tra il rigore nel campo dell’esecuzione penale già rivendicato in prima battuta da Fratelli d’Italia e il garantismo di Forza Italia.

Non che la giustizia debba per forza essere, oggi, un veicolo preferenziale, nella ricerca del consenso. Ma la difficoltà nell’individuare un proprio spazio in un settore comunque così importante è, per Salvini, il sintomo di un più generale affanno, che la crescita di Forza Italia può solo aggravare.