Esi, è proprio così, la procura di Genova ha perso le elezioni in Liguria. E questa mattina, quando Giovanni Toti, e con lui Aldo Spinelli e Paolo Signorini, si presenterà al cospetto del giudice Matteo Buffoni per la convalida del patteggiamento, nessuno potrà impedirgli di esibire un sorriso largo quanto la distanza tra le sue orecchie. La vittoria di Marco Bucci e del centrodestra a elezioni regionali molto politiche anche se determinate non dai partiti ma da un’inchiesta giudiziaria, è anche la sua. E’ sicuramente la sua, e la procura ha perso. Inutile girarci intorno.

Tutte le fasi di questa vicenda che si è conclusa ieri e che è iniziata nel 2020 nei silenzi giudiziari della città di La Spezia, la stessa dove è nato a cresciuto colui che diventerà il numero uno del pd in Liguria, paiono avere una sola direzione. Il risultato sognato e poi infranto di passare dal “sistema Toti” al “sistema Orlando”. Persino, quando ormai Giovanni Toti è stato cortesemente accompagnato all’uscita da una magistratura che non lo mollava dalla detenzione domestica se non dopo le dimissioni, con l’inserimento di due uomini di sicura fede orlandiana nell’impero di quell’Aldo Spinelli che pareva una così cattiva persona finché dialogava con il governatore di centrodestra ed elargiva modesti contributi per le campagne elettorali.

Prima arriva l’avvocato David Ermini, ex parlamentare pd, già vicepresidente del Csm, al vertice di Spininvest, poi, alla presidenza del gruppo logistico Spinelli sbarca proprio da La Spezia, dove era stato presidente del porto di nomina del governo giallorosso Conte due, Mario Sommariva, ex segretario nazionale della cgil trasporti. Vicino a D’Alema, si dice e, per la proprietà transitiva, amico di Orlando che di D’Alema fu figlioccio. E contemporaneamente capitava anche un transito tra le toghe, dalla procura di La Spezia a quella di Genova, nella persona di Luca Monteverde, figlio di uno degli esponenti più apprezzati di Magistratura Democratica, che condurrà le indagini che porteranno agli arresti del 7 maggio di quest’anno.

Questa inchiesta, per niente lineare e apparentemente incomprensibile, passerà alla storia per le sue incongruenze di giustizia pazza che, dopo quattro anni di intercettazioni, la fissazione di un rito immediato che non si celebrerà mai, il deposito di venti terabyte difficilmente consultabili, e un secondo mandato di arresto mentre i compagnucci manifestavano per chiedere più manette, ha improvvisamente deposto le armi. E si, perché la proposta di un patteggiamento così vuoto di reati da parte del procuratore Nicola Piacente che cosa è se non una resa? Giovanni Toti spesso, a coloro che con un po’ di stupore gli domandano perché abbia scelto quel tipo di conclusione del proprio processo, domanda come mai analoga domanda non venga posta a coloro che il patteggiamento gli hanno proposto, cioè gli uomini della procura.

L’accordo che, salvo sorprese, verrà siglato oggi al tribunale di Genova, sancisce che ogni atto dell’amministrazione regionale presieduta da Toti era legittimo e che comunque, pur nell’ambito di una “corruzione impropria” determinata dai contributi elettorali versati legalmente, non un euro è entrato nelle tasche dell’ex governatore.

Eppure, anche questo non va dimenticato, l’inchiesta era partita addirittura con una contestazione di aggravante mafiosa ad altri indagati, utile strumento per un percorso agevolato di tempi e proroghe, soprattutto per le intercettazioni. Qualcuno dovrebbe spiegare all’altro soggetto politico sconfitto dalle elezioni regionali, la trasmissione “Report”, che quell’espediente della contestazione di mafia, che non potrà reggere a nessuna verifica processuale, è fondato solo sulla parentela di un indagato con un cognato in carcere al 41 bis in Sicilia. Tutto il resto è fuffa, e basterebbe leggere le carte per capirlo. Ed è stato inutile gettare la bombetta di carta della puntata nel mezzo della campagna elettorale. Ottimo share comunque, complimenti alla regia politica.

Ma se stravagante e un po’ pazzo è stato il punto di partenza, molto gravi, da un punto di vista delle garanzie e del rispetto delle regole dello Stato di diritto, è stato il percorso successivo. Giovanni Toti è stato arrestato sulla base di reati gravissimi che non esistono più, dopo esser stato controllato giorno e notte per quattro anni alla ricerca dei reati.

Sono stati riscontrati, come dice il contenuto del patteggiamento, solo atti amministrativi legittimi. Parallelamente, la lista elettorale del presidente della Regione ha ricevuto contributi elettorali, regolarmente tracciati. Ci hanno insegnato a scuola che le rette parallele non si incontrano mai. Quelle della procura di Genova per tre mesi sono state fatte incontrare. E Toti è stato tenuto legato alla sedia, non volontariamente come faceva Vittorio Alfieri, ma per obbligo, con la motivazione della sua propensione a delinquere e a ripetere all’infinito lo stesso reato. Prima, nella versione della gip Paola Faggioni, perché si era alla vigilia delle elezioni europee. Poi, nel teorema dei giudici del riesame, perché quel santuomo non poteva proprio fare a meno di farsi corrompere, almeno finché fosse rimasto seduto su quello scranno. Così lo hanno buttato giù, con le dimissioni.

Non c’erano riusciti gli uomini e le donne del fu campo largo che avevano manifestato in piazza con la loro debolezza. Senza capire che la vera forza politica l’avevano in mano altri soggetti. Ma non è servito a molto. Le piazze e le inchieste hanno potuto poco. La scelta di un ottimo candidato da parte di Giorgia Meloni, il concreto incoraggiamento di un solido personaggio politico come il sindaco di Imperia Claudio Scajola, il successo personale di un giovane di Forza Italia come l’ex sindaco di Rapallo Carlo Bagnasco, primo arrivato a Genova, hanno fatto il resto. Marco Bucci ha vinto. Ma ha vinto anche Giovanni Toti. E la procura ha perso.