Se un telespettatore del lontano 1985 fosse trasportato dalla macchina del tempo avanti di trent'anni sbigottirebbe vedendo sul medesimo teleschermo il faccione bonario e le sopracciglia alla Breznev di Perluigi Bersani: «Oddio e che ci fa Ferrini in una trasmissione politica vera? ». Già perché a stupirlo non sarebbe la carriera di quello che nell'anno di grazia in questione era solo un consigliere regionale ignoto ai più. Per la verità non lo riconoscerebbe neppure e lo scambierebbe per il personaggio di quello che ai suoi tempi era il programma tv più cool che ci fosse in Italia: Quelli della notte. Fra i tanti personaggi geniali messi in scena da Renzo Arbore uno dei più riusciti era Ferrini, il "comunista emiliano" col cuore rosso annacquato nella pratica perché «abbiamo le mani legate», metà militante, metà aspirante industrialotto nel ramo «dei pedalò». Somigliava a Bersani. Parlava come Bersani. Sentiva e pensava come Bersani.Miracoli della satira? Non proprio. È che Pierluigi Bersani, con tutto il suo passato di chierichetto a Piacenza prima e la militanza giovanile in Avanguardia operaia poi, è precisamente questo: un comunista emiliano, figura antropologica quanto e più che politica, una specie a parte. Nel Pci il "partito emiliano" occupava una postazione ben precisa: era in un certo senso l'azionista di maggioranza, quello che portava voti a valanga ma anche quello che per cui il "partito di governo" aveva sempre la meglio sul "partito di lotta". Viene da lì Bersani, dalla culla della Lega delle cooperative, dalla Regione dove i rossi più che confliggere dalla notte dei tempi amministrano, e si vede. Quando nel 1996 Prodi volle l'ex presidente della Regione Rossa nel suo governo, gli affidò l'Industria e non a caso l'unico appunto che bersagliò Bersani fu quello di aver dato una mano alla grande distribuzione, perché chi dice Emilia, si sa, dice coop.Dalemiano di non stretta osservanza, portato a stemperare più che a esacerbare, dotato di un'ironia sorniona poco consona agli usi strillati della seconda Repubblica, più amministratore che politico puro, nel nuovo millennio Bersani ha finito quasi suo malgrado per incarnare un ruolo che nessuno avrebbe mai predetto e che ben poco gli si attaglia: quello del leader della sinistra del Pd. Lui, che barricadiero proprio non è e che la sinistra di governo la porta incisa nel dna più di molti altri, si è limitato a restare se stesso, un socialdemocratico, mentre quasi tutti gareggiavano a chi abiura prima e meglio. Si è ritrovato gauchiste quasi senza accorgersene, e certo senza volerlo.Però Bersani non è precipitato in fondo agli indici di gradimento perché la sinistra in Italia ormai la vedono tutti come un gatto nero, che se ti taglia la strada conviene svicolare, ma perché è un uomo del passato, il che, sempre in Italia, è anche peggio che sembrare di sinistra. Cerca di mediare, tira a evitare i cozzi frontali, addirittura sdrammatizza, pretende che le controparti giochino pulito. Di questi tempi non è cosa e Ferrini, ooops Bersani, finisce regolarmente sgambettato con tanto di inevitabile effetto cartone animato.Come ministro dell'Industria nel secondo governo Prodi vara un decreto sulle liberalizzazioni che vale a quel governo gli unici applausi in venti mesi. Le categorie colpite s'imbufaliscono, lui retrocede e smussa sino a rendere il testo irriconoscibile: gli applausi mutano in fischi.Si ritrova capo di una coalizione di centrosinistra ma il capo dello Stato Napolitano Giorgio s'impunta e impone di abbassare i toni. Lui si piega: gli elettori lo bastonano ripiegando su Grillo. Al momento di eleggere il nuovo Presidente stringe un patto tra gentiluomini con uno che non vede l'ora di pugnalarlo come Renzi: inevitabilmente si ritrova col coltellaccio fra le scapole. Grillo lo invita ad un agguato, lui si presenta come se si trattasse davvero di un corretto e formale incontro tra partiti: il capocomico lo fa umiliare da Crimi senza manco scomodarsi di persona e mezzo Paese gli ride dietro.Pare che Pierluigi Bersani, dopo aver esitato per tre anni votando riforme e leggi che trovava orripilanti, abbia deciso di dare battaglia. Chi gli vuole bene può solo augurargli di farlo sul serio, andando sino in fondo e con la dovuta cattiveria. Se prova a combattere Renzi come faceva con Berlusconi, smacchiando leopardi e spettinando bambole, stavolta finisce lungo sul serio. Perché Matteo Renzi non è mica Berlusconi: non gli è mai capitato di graziare nessuno.