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Per Berlusconi è stato un trionfo. Per Antonio Tajani, organizzatore e gran maestro di cerimonie è stato un successo anche maggiore. Il ragazzino monarchico di piazzale delle Muse, nel cuore nerissimo dei Parioli neri, si è giocato sulla piazza di Bruxelles la possibilità di guadagnarsi a breve la corona: se non quella di monarca, che spetta per diritto di nascita al sovrano d’Arcore, almeno quella di primo ministro e reggente. Ma anche se il colpaccio non riuscisse, e in realtà è improbabile che l’ex cronista del Giornale s’insedi a palazzo Chigi, è un fatto che la figura grigiastra di Tajani negli ultimi mesi è cresciuta a dismisura nella nomenklatura azzurra proprio in virtù della delicata missione europea: restituire al capo il prestigio perduto 7 anni fa nella capitale della Ue, tra i sorrisetti sprezzanti di Angela Merkel e Nicolas Sarkozy, le battutacce sulle frequentazioni olgettin- boccaccesche e gli ultimatum della Bce. Dopo l’escursione dei giorni scorsi Tajani ha tutto il diritto di dichiarare la missione compiuta con felicissimo esito.
Che fosse lui l’uomo giusto per simile compito era indiscutibile. Questione di pochi mesi e saranno 24 anni filati che fa il parlamentare europeo. L’unica occasione in cui si è profilato un vero ritorno a casa è stato nel 2001, quando si giocò la guida della Capitale contro Veltroni, che però lo sconfisse al ballottaggio.
A Bruxelles Tajani conosce tutti e ha influenza su molti. Ma soprattutto è di casa ai piani alti del Ppe. È stato lui l’artefice dell’ingresso di Forza Italia nel partitone centrista europeo. È stato anche due volte commissario europeo, prima ai Trasporti, tra il 2008 e il 2009, poi all’Industria, dal 2010 al 2014. La nomina fu per la realtà frutto di un sotterfugio al quale si prestò volentieri il presidente della commissione Barroso, che mirava alla rielezione e contava sull’appoggio della componente azzurra del Ppe.
L’italiano Frattini si era appena dimesso per partecipare alla campagna elettorale in Italia e a indicare il successore avrebbe dovuto provvedere il presidente italiano del consiglio uscente, Romano Prodi. Barroso invece prolungò l’aspettativa di Frattini, che si sarebbe dovuta limitare alla campagna elettorale, poi rinviò ancora, ufficialmente per dare tempo a Prodi e al suo successore, Berlusconi Silvio, di mettersi d’accordo su un nome. La missione era palesemente impossibile ma l’orologio correva e finì infatti che a scegliere il successore di Frattini, nel frattempo nominato ministro degli Esteri, fu il solo Berlusconi, che indicò Tajani.
Non che nel ruolo l’italiano abbia proprio brillato. Documenti resi noti nell’autunno 2016 sembrano attestare che chiuse entrambi gli occhi sulle note che segnalavano le eccessive emissioni diesel dei motori di alcune grandi industrie automobilistiche. Come la Wolkswagen che dopo poco finì al centro dello scandalo Dieselgate e dovette ritirare migliaia di auto fuori legge.
La carica di presidente del Parlamento europeo, alta postazione che ha reso più agevole il compito di restituire a re Silvio l’onore perduto, Antonio Tajani la ha conquistata, primo italiano dai tempi di Emilio Colombo nel 1979, battendo al quarto scrutinio il socialista Pittella. Però non è solo l’eterna presenza a Bruxelles e la rete di rapporti allacciati nell’Europa che conta che rendeva l’ex giornalista adatto a spianare al capo la strada del rinnovato riconoscimento europeo. Tajani, a modo suo, studia da sempre per diventare Gianni Letta.
Con l’eminenza grigia di Arcore il politico romano di origini ciociare ha in comune il programmatico grigiore e la capacità di coltivare rapporti discreti ma profondi con le centrali di potere che fanno la differenza. A differenza del maestro ha dovuto sgrossare il carattere da una certa altezzosità sprezzante, che col tempo si è però stemperata. Senza contare l’elemento forse più importante di tutti agli occhi di Silvio Berlusconi: Tajani nel corso dei decenni e a differenza di quasi tutti i ras azzurri è sempre rimasto fedele al capo, dal punto di vista politico come da quello umano e si sa che per Berlusconi tra i due piani non c’è molta dif- ferenza.
È stato così sin dall’inizio della metodica ascesa dell’allora quarantenne giornalista romano, nel gennaio 1994. Tajani, figlio di un ufficiale dell’esercito e di una professoressa era cresciuto a Roma ma passando alcuni anni in Francia, esperienza che gli ha portato in dote una conoscenza delle lingue molto inusuale tra i poltiici italiani. Ne parla quattro: italiano, inglese, francese e spagnolo. Al Tasso, uno dei licei rossi della Capitale, come monarchico non godeva di vasta popolarità. Per rompere l’isolamento si rifugiava tra i cugini del fronte della Gioventù ma anche quelli storcevano il naso quando il quasi- camerata confessava la passione per casa Savoia.
Dopo aver seguito per un po’ le orme del babbo, come ufficiale d’aeronautica, il monarchico passò al giornalismo, facendosi le ossa al Settimanale per poi passare al Gr1 e infine al Giornale ancora diretto da Indro Montanelli. Il passo decisivo che gli ha cambiato la vita Tajani lo ha mosso quando il suo editore decise di trasformarsi in leader politico, all’inizio del 1994. Il Cavaliere aveva bisogno di un addetto stampa. Il gagliardo cronista conosceva il gran capo avendolo intervistato qualche volta. Si propose. Fu accettato. Da allora è stata tutta discesa, e non è ancora finita.