Difficile, forse impossibile, ricordare un altro governo che incappa nel primo sciopero della sua esistenza per la protesta di una categoria che fa parte della propria base sociale, contestato dunque da una fascia che dovrebbe rappresentare ancora prima che da aree sociali più vicine ai campi avversari. La cosa più grave, nella serrata dei benzinai, non è lo sciopero in sé ma il fatto che si tratti di fuoco amico. Ed è anche la facilità con cui l'incidente poteva essere evitato, sembrava anzi esserlo stato dopo il primo incontro con le associazioni dei gestori, quello che aveva portato al congelamento della protesta già dichiarata. A compromettere la situazione è stata soprattutto la paura della premier di apparire debole, preoccupazione che in realtà denota sempre una debolezza effettiva. La decisione di varare il decreto subito dopo aver convocato un nuovo incontro per i giorni successivi con i benzinai è stata una di quelle scelte incomprensibili se non alla luce di un nervosismo crescente.

Proprio nel giorno in cui i gestori blindano le pompe si profila un altro scontro tra il governo e il proprio zoccolo duro nel sociale: quello sulle concessioni balneari. Stavolta, però, la maggioranza si presenta in ordine sparso, moltiplicando così il danno. La direttiva europea impone di rimettere le concessioni in gara, ponendo termine a quelle attuali il prossimo 31 dicembre. Quella a favore degli stabilimenti è da sempre una battaglia della destra e infatti tutti e tre i partiti della maggioranza hanno presentato emendamenti per prorogare le concessioni. Ma la Ue non ne vuole sapere e la premier ha ordinato al suo partito di non inserire l'emendamento tra quelli segnalati. Ma né Lega né Fi hanno fatto altrettanto con i loro emendamenti favorevoli alla proroga.

Per la premier la marcia indietro rispetto a una posizione assunta da sempre è impossibile. Dunque assicura di non voler abbandonare i balneari e la difesa dei loro indifendibili privilegi ma di mirare a una soluzione permanente e non momentanea come sarebbe la proroga. Cioè alla modifica della Bolkenstein. Che ce la faccia è estremamente difficile ma che ce la faccia in tempi brevi è impossibile. Probabilmente Giorgia chiederà agli alleati di fare un passo indietro promettendo in cambio la proroga per decreto legge se in estate non sarà ancora stata trovata un'intesa con Bruxelles. Sarebbe una boccata d'ossigeno, dato e non concesso che gli alleati accettino la formula

di mediazione ma si tratterebbe solo di un rinvio perché una resa di Bruxelles sul tema è quasi inimmaginabile. Ora o fra pochi mesi la premier dovrà scegliere tra il deludere la sua base elettorale con rischio di spaccare anche la maggioranza e lo scontro che vorrebbe evitare a ogni costo con la Commissione europea. Con tanto di procedura d'infrazione.

Sul piano politico i guai sono anche più grossi. Palazzo Chigi, nonostante l'impegno assunto al termine del vertice della settimana scorsa, continua a frenare sull'autonomia differenziata che, stando a quanto affermato al termine di quel vertice, dovrebbe essere trasformata in ddl e quindi calendarizzata «in uno dei prossimi Cdm». Ora Giorgia fa sapere che se ne parlerà, certo, però solo in sede di preconsiglio e non questa settimana. L'obiettivo di evitare di fare quel passo prima delle elezioni in Lombardia, per non avvantaggiare la Lega, è tutto sommato a portata di mano ma, molto più prima che poi, l'inquilina di palazzo Chigi dovrà rassegnarsi a chiarire la situazione in materia con la Lega. Di certo non sarà facile e probabilmente neppure indolore.

Lo stesso problema che si pone con la Lega per l'autonomia campeggia anche nei rapporti con Fi sulla giustizia. Proprio come vorrebbe evitare di pagare ai leghisti il prezzo dell'alleanza con la moneta sonante dell'autonomia, così la premier esita oltre ad andare fino in fondo sul prezzo dell'altro alleato, la riforma della giustizia. Ma anche qui deve fare i conti con la determinazione del partito azzurro. Per la tenuta della maggioranza la minaccia azzurra è più temibile di quella verde: la Lega non ha altri forni nei quali cuocere il proprio pane. Fi sì: quello della premiata forneria Calenda- Renzi.

Per ora la presidente mira a rinviare i momenti della verità a dopo le elezioni, che spera le consegnino una forza anche superiore a quella di cui gode oggi. Ma nel giro di pochi mesi i conti con la propria maggioranza, che non è il suo partito ma una coalizione, e con i suoi elettori, la cui fedeltà è volatile, dovrà farli.