Non ci sarà il referendum sull'autonomia differenziata, chiesto a gran voce dalle opposizioni e dalle regioni da loro governate, dopo l'approvazione da parte del Parlamento del ddl Calderoli. La decisione è stata comunicata nel tardo pomeriggio dalla Consulta dopo la camera di consiglio di sette ore.

Rinviando al deposito delle motivazioni, che dovrebbe avvenire a febbraio, la Corte costituzionale ha anticipato che il quesito referendario è stato ritenuto inammissibile in quanto “l’oggetto e la finalità del quesito non risultano chiari”. “Ciò pregiudica”, prosegue la nota, “la possibilità di una scelta consapevole da parte dell’elettore. Il referendum verrebbe ad avere una portata che ne altera la funzione, risolvendosi in una scelta sull’autonomia differenziata, come tale, e in definitiva sull’art. 116, terzo comma, della Costituzione; il che non può essere oggetto di referendum abrogativo, ma solo eventualmente di una revisione costituzionale”.

In effetti, la Corte aveva già ampiamente detto la propria sul provvedimento lo scorso novembre, quando pur non bollandolo come incostituzionale aveva evidenziato numerose criticità che il Parlamento sarà tenuto a sanare, a partire dalla definizione dei Lep, i Livelli Essenziali di Prestazione. Proprio su questo punto, dopo i rilievi di novembre, aveva insistito la maggioranza nella tesi che non vi fosse più bisogno di una consultazione referendaria.

La Consulta ha ritenuto invece ammissibili gli altri cinque quesiti al vaglio, a partire da quello sul dimezzamento dei tempi per la concessione della cittadinanza italiana. Ammissibili anche quelli rinconducibili al jobs act: sui licenziamenti nelle piccole aziende, e sulle relative indennità, sulle norme in materia di apposizione di termine al contratto di lavoro subordinato, durata massima e condizioni per proroghe e rinnovi e sull'esclusione della responsabilità solidale del committente, dell'appaltatore e del subappaltatore per infortuni subiti dal lavoratore dipendente di impresa appaltatrice o subappaltatrice.

Naturalmente, l'attenzione era puntata sulla decisione relativa all'autonomia, viste le implicazioni politiche. Non a caso, la prima reazione è arrivata da uno dei padri del provvedimento, il governatore del Veneto Luca Zaia, che sui social ha scritto entusiasta “Ora avanti tutta!”, mentre il Pd ha fatto sapere che in Parlamento continuerà “a dare battaglia per evitare le forzature della destra e bloccare le intese avviate con le regioni del Nord”.

Come è noto, la decisione è giunta con un organico ridotto: undici giudici costituzionali, il minimo sotto cui non si può andare, pena la mancanza del numero legale. La seduta di oggi era stata inizialmente convocata per il 13 gennaio e poi rinviata di una settimana per permettere al Parlamento di eleggere i quattro giudici per i quali è scaduto il mandato. Ma il voto a camere riunite di martedì scorso, contrariamente a quanto ci si attendeva, non ha avuto alcun esito.

Nonostante i richiami dall'ex-presidente della Corte costituzionale Augusto Barbera e dello stesso presidente della Repubblica, le forze politiche ancora non sono riuscite a trovare un accordo per dei nomi condivisi. La conferenza dei capigruppo di Montecitorio ha fissato il prossimo voto per giovedì 23 gennaio, con la speranza che si tratti dell'occasione decisiva, ma i nodi da sciogliere sembrano ancora molti.

I riflettori sono principalmente puntati su Forza Italia, dove l'iniziale ballottaggio tra il viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto e il senatore Pierantonio Zanettin (entrambi parlamentari) sembra dover risolversi con la scelta di un outsider, che potrebbe essere il Professor Andrea Di Porto, o l'avvocato genovese Roberto Cassinelli. Tra le poche certezze, c'è l'elezione del consigliere giuridico di Palazzo Chigi Francesco Saverio Marini, sul cui nome Giorgia Meloni tentò la forzatura la scorsa estate, non riuscendo però a ottenere i voti necessari.

Un altro nome quasi certo della sua elezione dovrebbe essere il candidato in quota opposizione, nella persona del costituzionalista Massimo Luciani, mentre per le personalità “tecniche” i nomi in ballo appaiono quello dell'avvocato generale dello Stato Gabriella Palmieri Sandulli e della tributarista Valeria Mastroiacovo. Lo stallo parlamentare dura da più di un anno, da quando cioè si è esaurito il mandato dell'ex-presidente Silvana Sciarra alla fine del 2023.

Mentre era vacante il seggio di Sciarra, sono giunti a scadenza di mandato anche Barbera e i vicepresidenti Franco Modugno e Giulio Prosperetti. Nei primi due scrutini, il quorum necessario all'elezione è dei due terzi dei parlamentari, mentre dal terzo in poi si abbassa a tre quinti. Attualmente, sia la votazione per rimpiazzare Sciarra che quella per rimpiazzare Barbera e i vicepresidente sono “allineate” sul quorum dei tre quinti. L'incertezza della situazione parlamentare, verosimilmente, è anche alla base della decisione di non rinviare il voto per l'elezione del nuovo presidente della Consulta, previsto per oggi. Il posticipo della seduta sull'ammissibilità dei referendum, a cui non ha fatto seguito l'elezione dei giudici mancanti, deve aver indotto la Corte a non aspettare oltre.