Molto di più sapremo quando la Corte costituzionale, dopo aver anticipato con un comunicato il proprio pronunciamento sull'autonomia differenziata, depositerà integralmente le motivazioni, ma si può dire già con buona approssimazione che quanto contenuto nella nota di giovedì richiama alla memoria un altro documento di qualche mese fa.

In tempi non sospetti, infatti, un gruppo di costituzionalisti aveva scritto una lettera al Professor Sabino Cassese, all'epoca presidente del Comitato Lep nominato dal ministro Roberto Calderoli, per manifestare le proprie perplessità su alcune conclusioni relative proprio alla definizione dei Livelli Essenziali di Prestazione (Lep). A leggere attentamente i rilievi dei giudici costituzionali, risulta evidente che quanto fatto presente dai “saggi” in questione è in parte sovrapponibile alle conclusioni della Consulta, in particolar modo per la definizione di “materie Lep” e “materie non Lep” ma anche per le modalità con cui la legge sull’autonomia avrebbe stabilito il “minimo garantito” a livello economico da riservare alle regioni provviste di minori risorse.

Andiamo per ordine e facciamo un passo indietro: nella missiva, firmata tra gli altri dai professori Massimo Luciani, Francesco Saverio Marini (consigliere di Palazzo Chigi che la premier Giorgia Meloni vorrebbe nominare giudice costituzionale), Maria Alessandra Sandulli, Giovanni Tarli Barbieri e Filippo Vari, si chiedeva anzitutto che la definizione dei Lep fosse puntuale e già presente nel testo Calderoli, anziché da definire in un secondo momento con un iter assai macchinoso. «Ci permettiamo di segnalare», scrivevano i citati giuristi, «a Te e agli altri componenti del CLEP, in particolare, il passaggio in cui si dice che “la determinazione puntuale della nozione LEP appartiene ad un momento successivo nel quale la componente tecnica, giuridica ed economica, non è la sola a rilevare”, con la conseguenza che “non può che spettare al decisore politico la responsabilità di questa definizione”».

Per gli autori della lettera, invece, «questa affermazione esprime una debolezza che ha inficiato i nostri lavori sin dall’inizio, essendo mancata quella preliminare definizione delle nozioni fondamentali e del metodo del nostro lavoro che da tempo avevamo sollecitato». «Il CLEP», proseguono, «non si è chiesto dove si situi il confine tra tecnica e politica nella determinazione della nozione di LEP e neppure se davvero la nozione di LEP non sia interamente definibile in sede scientifica. Anzi, se spetterà ad altri addirittura la stessa determinazione puntuale della nozione di LEP, vorrà dire che potrebbe obiettarsi al CLEP di aver lavorato su qualcosa la cui identità non è stata pienamente approfondita e condivisa da tutti i suoi componenti».

Nonostante tali vizi di metodo, il gruppo di giuristi formulò delle proposte emendative alle conclusioni della commissione Cassese, che si possono riassumere nella richiesta di minore vaghezza e maggiore collegialità nella definizione dei Lep. In particolare, i costituzionalisti chiedevano di sopprimere il passaggio della relazione conclusiva del Comitato in cui si affermava che «la determinazione puntuale della nozione LEP appartiene ad un momento successivo nel quale la componente tecnica, giuridica ed economica, non è la sola a rilevare. Poiché dal modo di tratteggiare la nozione LEP», proseguiva la parte del documento “contestato” dai giuristi, «possono discendere conseguenze per la finanza pubblica in termini assoluti, conseguenze redistributive e allocative in termini relativi, non può che spettare al decisore politico la responsabilità di questa definizione». «Nell’ottica dei Lep», proseguivano, «i settori non sono tutti eguali, essendo alcuni assai più 'sensibili' di altri».

Obiezioni che, al di là degli aspetti più tecnici, vanno nella stessa filosofia dei rilievi della Consulta, e che probabilmente, se fossero state recepite nel testo, avrebbero accelerato l'entrata in vigore della riforma, che invece ora sarà ulteriormente dilazionata. La definizione dei Lep, per i giudici costituzionali, non può essere rimessa esclusivamente nelle mani del governo, così come non va bene la previsione che sia un decreto del presidente del Consiglio dei ministri (Dpcm) a determinare l’aggiornamento dei livelli. Continuando su questa linea di ragionamento, la Corte ha stabilito altresì che i Dpcm non sono strumenti adatti a regolare i diritti sociali e civili dei cittadini italiani, come ad esempio il diritto alla salute, all’istruzione, alla mobilità. Anche i rilievi riguardanti il finanziamento dei Lep e la compartecipazione delle regioni al gettito non appaiono distanti da ciò che i citati costituzionalisti fecero notare al Comitato.