Esistono materie che non possono essere trasferite sic et simpliciter dallo Stato centrale alle Regioni, sia per motivi di sicurezza che di coesione sociale. È il concetto più importante che la Corte costituzionale ha ribadito nelle motivazioni (depositate ieri) della sentenza dello scorso 14 novembre, con cui aveva parzialmente accolto i ricorsi di quattro regioni, rispetto alla legge Calderoli sull'autonomia differenziata. In quell'occasione la Consulta aveva fatto sapere per sommi capi di non aver trovato il testo incostituzionale nel suo complesso, ma di avere rilevato sette profili di sofferenza costituzionale e indicato correttivi per altri cinque punti. A cadere nella censura dei giudici costituzionali era stato anzitutto il concetto - espresso nella legge Calderoli – in base al quale ben 23 materie possono essere oggetto del negoziato tra governo e Regioni.

In virtù dei principi di sussidiarietà e unità della Repubblica, invece, non si possono trasferire «materie o ambiti di materie» ma solo «specifiche funzioni legislative e amministrative», e in ogni caso questo trasferimento deve essere «giustificato, in relazione alla singola regione, alla luce del principio di sussidiarietà».

Ma l'elemento che emerge in maniera più corposa dalle motivazioni del pronunciamento di novembre è che «vi sono delle materie alle quali afferiscono funzioni il cui trasferimento è, in linea di massima, difficilmente giustificabile secondo il principio di sussidiarietà. Vi sono, infatti, motivi di ordine sia giuridico che tecnico o economico, che ne precludono il trasferimento».

Si tratta, ad esempio, delle materie in cui «predominano le regolamentazioni dell’Unione europea» come la politica commerciale comune, la tutela dell’ambiente, la produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia e le grandi reti di trasporto, ma anche le «norme generali sull’istruzione che hanno una valenza necessariamente generale ed unitaria».

Un passaggio importante delle motivazioni, poiché la possibilità di trasferire a livello regionale la competenze sull'istruzione era stato un dei fronti più polemici tra maggioranza e opposizione nel corso dell'iter parlamentare della legge. Al momento della revisione parlamentare della legge, sarà pertanto difficile che le materie appena citate restino tra quelle oggetto di negoziato tra i diversi livelli di governo. Da questo punto di vista, un passaggio delle motivazioni va oltre, fissando, per così dire, anche un principio astratto, quando si afferma

che «l’accentuato pluralismo, che si riflette anche sul piano istituzionale, non porta alla evaporazione della nozione unitaria di popolo» o di «un nucleo di valori condivisi che fanno dell’Italia una comunità politica con una sua identità collettiva. Esiste una sola nazione così come vi è solamente un popolo italiano, senza che siano in alcun modo configurabili dei ' popoli regionali' che siano titolari di una porzione di sovranità».

Parole chiare, che preludono ad un altro fronte dei rilievi dei giudici costituzionali, vale a dire quelli sugli aspetti economici, perché i giudici osservano che eventuali trasferimenti dovranno avvenire senza nuovi oneri per le finanze pubbliche, in modo da consentire allo Stato di mantenere i propri apparati per adempiere alla propria parte di funzioni. «L'ineliminabile concorrenza e differenza tra regioni e territori», osservano i giudici costituzionali, «che può anche giovare a innalzare la qualità delle prestazioni pubbliche, non potrà spingersi fino a minare la solidarietà tra lo Stato e le regioni e tra regioni, l'unità giuridica ed economica della Repubblica, l'eguaglianza dei cittadini nel godimento dei diritti, l'effettiva garanzia dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali e quindi la coesione sociale e l'unità nazionale - che sono tratti caratterizzanti la forma di Stato, il cui indebolimento può sfociare nella stessa crisi della democrazia».

Spetta «“solo al Parlamento il compito di comporre la complessità del pluralismo istituzionale». Ecco perché, ribadendo quanto già anticipato a novembre, la Consulta ha spiegato più approfonditamente che non si possono definire i Lep con dei Dpcm: «I Lep implicano una delicata scelta politica, perché si tratta di decidere quei livelli delle prestazioni con le risorse necessarie per garantire uno standard uniforme» di quei servizi «in tutto il territorio nazionale». Il prossimo passo giuridico sarà comprendere se questi rilievi precludono lo svolgimento del referendum o se questo si terrà egualmente. La palla passa, come ha spiegato il presidente della Consulta Augusto Barbera, all'ufficio centrale del referendum presso la Cassazione, alla quale è sono state trasmesse le motivazioni.