La corte d’appello di Bologna ha ribaltato ieri la sentenza di primo grado del processo “Aemilia” che aveva assolto l’avvocato Giuseppe Pagliani, attuale capogruppo di Forza Italia al comune di Reggio Emilia, dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. 4 anni di reclusione, oltre all’applicazione, una volta scontata la pena, della sorveglianza speciale, per l’avvocato reggiano che aveva scelto di essere giudicato con il rito abbreviato insieme ad altri 50 coimputati. Il processo con il rito ordinario per i restanti 200 imputati, invece, è ancora al dibattimento in primo grado.

«Rimango esterrefatto e profondamente deluso da una decisione che ritengo folle - scrive Pagliani in una nota subito dopo aver saputo della condanna - un accanimento personale del quale a memoria non vi sono precedenti nella nostra Regione».

Pagliani era stato arrestato a gennaio del 2015 nella maxi operazione della DDA di Bologna contro le infiltrazioni dell’ndrangheta in Emilia. Dopo 22 giorni di carcere, il Tribunale del Riesame aveva annullato l’ordinanza di custodia cautelare. Ad aprile del 2016, poi, l’assoluzione davanti al gup Francesca Zavaglia.

«Ho sempre fatto politica per idealismo e passione, stando sempre all’opposizione in una terra notoriamente difficile per la mia parte politica e non avendo mai avuto un briciolo di potere, né tantomeno incarichi nella gestione della cosa pubblica; la mafia mi fa schifo da sempre ed è vergognoso che qualcuno la associ al mio nome su di una sentenza. Continuerò la mia battaglia con rinnovata forza e convinto della mia totale estraneità, certo che questo incredibile errore giudiziario venga riparato in Cassazione», ha aggiunto.

Anche l’altro indagato eccellente di questo processo, l’ex assessore del comune di Parma Giovanni Paolo Bernini ( FI), era stato assolto in primo grado dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa e di voto di scambio politico- mafioso. Per lui, però, la Corte d’appello di Bologna ha confermato la sentenza.

Gli inquirenti erano convinti che Bernini avesse barattato un pacchetto di 200 voti con uomini del clan calabrese Grande Aracri durante le amministrative del 2007. «Sono molto più sereno ma non cambio opinione su quanto dissi in occasione dell’assoluzione in primo grado”, ha dichiarato al Dubbio Bernini. «In questa indagine non c’è stato alcun indagato del Pd, nonostante le numerose intercettazioni agli atti degli inquirenti attestino come le cosche calabresi intrattenessero rapporti con esponenti di quel partito».

«Su questo punto ho fatto un esposto al Csm: è mai possibile solo ipotizzare che in un processo alla mafia di queste dimensioni ci siano esclusivamente esponenti di Forza Italia quando è noto che i clan cala bresi hanno fatto lottizzazioni immense in tutta la Regione, soprattutto nei comuni di Reggio Emilia e Modena da sempre a guida Pd? L’attuale sindaco di Reggio, ad esempio, vive in una casa che gli è stato venduta da uno degli arrestati», ha proseguito Bernini.

«C’è qualcosa che non va. Nei mie confronti era stato chiesto, respinto dal gip, addirittura l’arresto, un accanimento di cui aver paura».

E, per quanto riguarda l’esposto al Csm, Bernini aggiunge che «il pm di questo processo, Marco Mescolini, è stato capo ufficio del vice ministro dello Sviluppo Economico, il senatore Roberto Pinza del Pd, durante il governo Prodi 20062008: posso avere qualche sospetto?». «Si sono voluti infangare i forzisti. Se un esponente di Forza Italia cerca i voti dei calabresi è mafia, se lo fa uno del Pd è normale campagna elettorale», ha poi concluso l’ex assessore.