I tatuati di Colleferro hanno questo modo – mica ci sono solo quei quattro, la comitiva è di una decina, e mandano avanti il piccoletto, quello si infila in un gruppo, prende la rissa, lo mettono giù. A questo punto, arrivano loro, i grossi, e menano tutti. E spaccano tutto. Fanno sempre così. Ogni sabato.

I tatuati di Colleferro – il sabato seminano il terrore. Gli piace la leggenda che gira intorno – a Artena, a Paliano, a Cori, a Colleferro, li conoscono tutti. Sono “la banda di Artena”. Li evitano tutti, se possono. Non sempre si può. E c’è sempre qualcuno che ancora non sa. E ci casca. Un’altra rissa, un altro pestaggio. Un’altra tacca. Un altro post da mettere sui social.

È il bullismo sistematico – l’ideologia del bullismo. Come fosse un riscatto, un ascensore sociale, una rivendicazione: «La vita in ginocchio, fatela fa’ a altri», scrive Gabriele Bianchi sul suo profilo facebook. Loro no. Loro, la vita la prendono a mozzichi. Loro, la vita degli altri, se la prendono.

I tatuati di Colleferro – non sono nati ricchi. Non sono come Gianluca Vacchi, tatuato e palestrato come loro che su Instagram posta le foto dei suoi balletti, dei suoi viaggi sullo yacht, del suo far nulla, con patrimonio assicurato, che ha migliaia e migliaia di follower. Vorrebbero. Loro vorrebbero – fiche strepitose accanto, dai fianchi sottili e dalle tette enormi, fiche- fumetto, patacche di orologi e collanazze d’oro, un brillante al lobo dell’orecchio, una ricchezza ostentata e schiaffata in faccia, che affascina migliaia di falliti, frustrati. Essere poveri non è una virtù – ce lo ricorda Briatore continuamente. Lavorare ed essere poveri – è una sfiga doppia. Ma Vacchi non ha bisogno di mozzicare nella vita – si diverte, se la gode, è ricco di famiglia. I tatuati di Colleferro no – se va bene, vanno in gita a Ponza un fine- settimana e si sparano i selfie, mica fanno la crociera nel Mediterraneo con chef e maggiordomo sullo yacht. Loro vorrebbero. Loro devono prenderla a morsi la vita. Quella degli altri.

«Il modo in cui odio e amo è pesante» – scrive uno dei tatuati di Colleferro. È una frase di Guè Pequeno, il rapper che è andato anche all’Isola dei famosi e ha scritto un libro, Guerriero, in cui racconta se stesso, tra periferie e suite a cinque stelle, tra poesia e slang di strada, tra droghe e ossigeno, e i suoi sogni: «Mi ero ripromesso due cose: che avrei spaccato col mio stile e avrei fatto i soldi». I soldi – è l’ossessione dei tatuati di Colleferro. Quelli che non hanno, quelli che vorrebbero avere. Ma c’è anche un’economia del bullismo – recupero crediti di droga, la palestra delle arti marziali: essere bulli di periferia può tornare utile, fare branco può tornare utile.

Prima o poi sarebbe successo – non può succedere a Vacchi e non può succedere a Pequeno, che ai soldi ci sono arrivati o se li sono trovati. A loro sì, a loro poteva succedere. Ma nessuno li ha fermati prima. Eppure, tutti sapevano.

Melissa Morganti è la sorella di Emanuele, ucciso nel 2017 a vent’anni a pugni e calci da un branco di balordi fuori del Mirò Music Club, in piazza Regina Margherita, ad Alatri. Era andato a ballare con la sua Ketty e non è più tornato a casa: «La mia idea di Giustizia mi spinge a voler fare in modo che quello che è accaduto a Emanuele non succeda ad altri. Perché questo non resti retorica, dico che la legalità e il rispetto per la vita umana devono venire prima del rispetto per la natura, l’ambiente, il clima. Se un Paese e i suoi cittadini non rispettano la vita dei loro simili, come e cosa possono amare e rispettare? Nella morte di Emanuele non c’è complotto o intrigo. È la fine di un bravo ragazzo di 20 anni che non desta molto interesse. Questo è il punto, la gente dovrebbe essere più colpita da un’uccisione immotivata». Invece, è successo a altri, è successo a un altro bravo ragazzo, a Willy, e nello stesso identico modo come è successo a Emanuele, una rissa, mettersi in mezzo per placare, una tempesta di violenza che si abbatte su di loro.

Emanuele e Willy facevano la cosa giusta – provare a sedare una rissa. Le risse nei locali nascono sempre per cose balorde, uno sguardo alla ragazza del gruppo, un urtarsi in qualche passaggio e non chiedere scusa, una mancanza di “rispetto”. Branchi che si contendono un territorio minuscolo dove qualcuno dovrà cacciare via qualcun altro, per sempre. Qualche volta saltano fuori le lame, a volte non serve. Emanuele e Willy non avevano branco – e questo è stato fatale.

È l’idea della violenza come regola di vita – fare la cosa giusta è una debolezza. La violenza è ovunque, non puoi resisterle, non puoi rovesciarla – puoi farla solo tua. Esibirla. Gonfiare i muscoli, metterti in posa – io sono un’arma pericolosa, fate attenzione. C’è il minuto di silenzio nella piazza del comune di Colleferro. La società civile è sgomenta. Non sa come reagire, sente di avere subito un torto, di vivere un lutto. Ma è troppo tardi, per Emanuele. Anzi, è “Tardissimo” – come canta Guè Pequeno. Nessuno farà più la cosa giusta a Colleferro. E noi, ne avremo di retorica, ancora.