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La pandemia giudiziaria. Tutte le strade portano in tribunale. E’ questo ormai il triste leit motif di questa nostra Italia che trasuda norme da tutti i pori e ove, per fare fuori il nemico, si lanciano codici, invece che pietre. Lo è ancor di più oggi, al momento di fare un primo bilancio sul Covid- 19, visto che le perdite, umane e materiali di questa pandemia, sono impressionanti.
Illusorio infatti che, con oltre 33.000 morti, la fine di questa vicenda non si celebri in un’aula di giustizia. Lo lasciavano presagire già i due atteggiamenti prevalenti durante la quarantena: il pugno di ferro dei governanti, nazionali e locali, ormai assurti a sceriffi, intenti come sono ad additare i cittadini e comminare sanzioni. E il tentativo di ricorrere agli “scudi giuridici” da parte di medici, strutture sanitarie, dirigenti, politici, banche e chi più ne ha più ne metta.
Si aggiunga che anche la vulgata dolciastra del contemperamento tra valori a tratti inconciliabili ( come diritto alla salute, libertà di riunione, di movimento, privacy ecc.) ha già rivelato tutta la sua fallacia. Questi valori non confliggono “da se” ma a causa delle misure adottate dallo Stato. E’ infatti quest’ultimo che, per proteggere un sistema sanitario incapiente, ha imposto la quarantena nazionale come provvedimento abnorme di contrasto della pandemia. Se prevenzione ( guanti, mascherine, occhiali, specie per gli operatori sanitari), distanziamento sociale e ospedalizzazione organizzata e sicura fossero stati allestiti da subito, appena dichiarata l’emergenza nazionale, ci saremmo infatti trovati dall’inizio nella situazione odierna: con contagi limitati, ben governati e senza bisogno di alcun lockdown ( o almeno non totale).
E’ quindi scontato che il contenzioso arriverà, come una slavina, sullo stesso crinale degli anni duemila, come avvenne nella vicenda delle vaccinazioni con sangue infetto. Lì furono le sezioni unite della Cassazione ( sentenza n. 581/ 2008) a dire l’ultima parola sulla responsabilità dello Stato, con ingenti risarcimenti pagati alle vittime di allora. Il messaggio fu forte e chiaro: mancata programmazione, impreparazione, omessa vigilanza e controllo, sono tutti comportamenti che generano responsabilità. Specie quando, come nel caso odierno, lo Stato da anni adotta Piani nazionali di prevenzione sanitaria che la pandemia ha dimostrato non essere stati osservati.
Idem per gli omologhi piani regionali, adottati d’intesa con lo Stato e rimasti anch’essi, in buona parte, sulla carta. Aver disatteso quei documenti di programmazione, salvo altro, non lascia scampo: il sistema pubblico è responsabile.
A questo punto, cosa fare? Attendiamo che sulla vicenda si apra un enorme contenzioso, con o senza la nuova class action amministrativa ( rinviata a novembre)? Accordare uno “scudo” a chiunque ne fa richiesta? O magari recuperare, in meglio, le disposizioni della legge 210 del 1992, varata a seguito della vicenda del sangue infetto?
Quella legge riguardava una situazione diversa ma contigua e prevedeva indennità per tutti coloro ( sanitari compresi) avessero contratto l’infezione per inadeguatezza del sistema pubblico. Essa potrebbe essere emendata oggi per indennizzare chi ha contratto – per analoghe ragioni- il Covid- 19, a patto di rinunciare ad attivare i relativi contenziosi. Si giungerebbe dunque allo stesso esito senza ulteriore sperpero di danaro pubblico, tempi biblici, costi e disagi per i danneggiati. E potremmo usare la dotazione europea destinata all’emergenza sanitaria. Resterebbero in piedi le responsabilità penali e contabili, ove ve ne siano i presupposti, senza però ulteriori aggravi per i contribuenti.
Possibile pensarci subito? Immaginare, per una volta, il nostro Parlamento come risolutore di problemi, non come passacarte alla magistratura? Possibile sperare che la fine della pandemia sanitaria non sia l’inizio di quella giudiziaria?