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Walter Tobagi poteva essere salvato. È questa la verità che viene fuori dalla storica sentenza della Corte di Strasburgo, che ha condannato l’Italia per violazione del diritto alla libertà d’espressione di Renzo Magosso e Umberto Brindani, nel 2004 rispettivamente giornalista e direttore di Gente. I due erano stati condannati in via definitiva per diffamazione per un articolo sull’omicidio del giornalista del Corriere della Sera Walter Tobagi, in cui si sosteneva che i carabinieri erano a conoscenza dell’intenzione dei terroristi di colpire il giornalista almeno sei mesi prima della sua morte, avvenuta a maggio del 1980 in via Solari.
Magosso, si legge nella sentenza, aveva fornito «un insieme coerente di documenti e di prove fattuali che dimostrano le verifiche effettuate e che consentono di considerare credibile la versione dei fatti di cui all'articolo e di considerare solida la base fattuale». Verifiche successivamente supportate, durante il processo, dalle dichiarazioni giurate dell’ex sottufficiale dei Carabinieri, Dario Covolo, nome in codice “Ciondolo”. La tesi di Magosso, che ora l’Italia dovrà risarcire con 15mila euro, più 3500 euro di spese legali, era supportata dalle dichiarazioni di “Ciondolo”, che nel 1979 aveva presentato ai propri superiori - il generale Alessandro Ruffino, allora capitano, ed il defunto generale Umberto Bonaventura - un’informativa circa il progetto di uccidere Tobagi. Un documento che, però, venne ignorato, invitando Covolo ad occuparsi di altro. Tobagi venne ammazzato proprio nel luogo indicato da “Ciondolo”, che davanti ai giudici di Monza confermò tutto. Ma ciò non bastò: per il tribunale, Magosso non avrebbe verificato l’esattezza delle informazioni riferite dal militare, agendo con superficialità solo con fini sensazionalistici, omettendo volutamente la verità ufficiale delle sentenze. Insomma, Magosso voleva fare uno scoop e per questo motivo non aveva guardato in faccia nessuno.
“Tobagi poteva essere salvato”.
Sedici anni dopo quell’articolo, la Cedu dà ragione al giornalista: i tribunali nazionali «non hanno fornito motivi rilevanti e sufficienti per ignorare le informazioni fornite e i controlli effettuati dai ricorrenti, che sono stati il risultato di un'indagine seria e approfondita». Le indagini sull’omicidio portarono, nel giro di pochi mesi, all’identificazione degli assassini, appartenenti all Brigata XXVIII marzo. A dare una svolta l’arresto, il 25 settembre del 1980, del leader del gruppo, Marco Barbone, figlio di Donato Barbone, dirigente editoriale della casa editrice Sansoni ( di proprietà del gruppo Rcs) che, poco dopo decise di collaborare, facendo finire in carcere più di un centinaio di sospetti terroristi di sinistra e portando alla condanna del gruppo di fuoco che uccise il giornalista.
La Procura di Milano, nel 1983, finito il primo processo sul caso Tobagi, inviò un comunicato ai giornalisti, nel quale definiva come del tutto destituita di fondamento e in netta antitesi con le risultanze processuali l’ipotesi che gli investigatori e tantomeno i magistrati disponessero di elementi di prova, indizi e notizie confidenziali su Barbone, in ordine all’omicidio di Tobagi, prima della spontanea confessione dello stesso. E chiunque avesse sostenuto il contrario, recitava la nota, sarebbe stato passibile di denuncia. Ciò perché nel giugno 1983, l'allora presidente del Consiglio, Bettino Craxi, dichiarò pubblicamente che, pochi mesi prima della morte del giornalista, i carabinieri avevano ricevuto notizie da un informatore su un attentato terroristico contro il giornalista.
Qualche mese dopo, fu l'allora ministro dell'Interno Oscar Luigi Scalfaro a rendere pubblica una relazione del 13 dicembre 1979, scritta dal brigadiere Covolo, depositata presso gli atti del reparto operativo del Gruppo dei Carabinieri di Milano, nella quale riferiva del progetto di uccidere Tobagi esattamente nel luogo in cui poi venne freddato qualche mese dopo. Un’informazione, aggiunse Scalfaro, che l’Arma aveva il dovere di riferire in via esclusiva all’autorità giudiziaria Di quella nota, però, si persero le tracce, fino alle “confessioni” fatte da Covolo a Magosso. Che nell’archivio Craxi fece una scoperta a conferma di quella tesi: il ministro della Difesa Lelio Lagorio aveva ricevuto conferma dell’esistenza dell’informativa di Covolo dai servizi segreti, informativa inviata anche «al procuratore Armando Spataro». E di quel documento Magosso ha inviato copia alla Cedu, a supporto della bontà del suo lavoro.
La nota di Covolo
Il 13 dicembre 1979 “Ciondolo” incontrò uno dei suoi confidenti, Rocco Ricciardi, alias “il postino”, che gli annunciò l’attività del gruppo in via Solari per sequestrare e uccidere Tobagi, vecchio obiettivo delle Fcc. Un progetto che Barbone aveva intenzione di attuare già nel 1977 e abortito a seguito dell’attentato commesso nel Varesotto ai danni della Bassani- Ticino, per evitare collegamenti tra i due eventi. Il gruppo impedì dunque il sequestro, spingendo Barbone alle dimissioni e alla formazione di un suo gruppo, la Brigata XXVIII marzo. Gruppo che, stando alle carte processuali, sarebbe nato il 28 marzo del 1980, dopo l’irruzione di via Fracchia, a Genova, decidendo solo in seguito, dunque, di uccidere Tobagi. Tesi falsa, secondo Magosso, in quanto gli stessi membri del gruppo hanno testimoniato la loro attività già nel 1979, all’epoca della nota di Covolo.
Il giudice Guido Salvini
A conferma della tesi di Magosso il lavoro svolto, alcuni mesi fa, dal magistrato Guido Salvini, che analizzando le carte in possesso dell’Arma scoprì che tre giorni dopo il delitto Tobagi i Carabinieri avevano ordinato ad un sottufficiale di recarsi in via Solferino 36, dove abitava Barbone, per verificarne la residenza. «Se hanno saputo di Barbone solo successivamente, per quale motivo sono andati a controllare? - dice al Dubbio Magosso -. Ma non solo: a giugno del 1980 venni contattato dal direttore del Corriere, Franco Di Bella, che mi disse: il generale Dalla Chiesa mi ha detto che ad ammazzare Tobagi è stato il figlio del nostro direttore generale Donato Barbone. Così andai a verificare con Umberto Bonaventura, che confermò la circostanza, aggiungendo di essere arrivato a Barbone tramite un manoscritto anonimo su un attentato mai avvenuto ordito dalle Fcc nel quale riconobbe la calligrafia del giovane. Non ci ho creduto, ma lui mi disse che era un’informazione sicura che veniva da Varese. Così gli chiesi di informarmi dell’arresto, cosa che fece. Su L’Occhio scrissi: “preso Marco Barbone delle Br, l’informazione viene da Varese”. Otto giorni prima che confessasse. Come fa la magistratura a dire che non ne sapeva nulla?». Sul delitto, dunque, pesa un «depistaggio». E per Salvini «fu un grande errore degli inquirenti di allora sottovalutare l’allarme di Covolo». Un errore cristallizzato ora anche dalla sentenza della Cedu.