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«Questa dialettica non deve mettere in discussione il percorso di 5 anni che ci servono per cambiare e migliorare davvero l'Italia». Dalla Cina, Giuseppe Conte, richiama all'ordine i soci di maggioranza del suo governo - Luigi Di Maio e Matteo Salvini - da settimane più impegnati a litigare che a trovare soluzioni unitarie per il futuro del paese. Perché un conto è la campagna elettorale, periodo in cui «è normale accentuare il confronto tra le varie parti», e un conto è creare fratture insanabili, ricorda il premier. Ma i due leader politici non sembrano affatto interessati al consiglio dell'inquilino di Palazzo Chigi, e dopo giornate incandescenti trovano nuovi argomenti per alimentare il fuoco delle diffidenze reciproche. A dividere Di Maio e Salvini, adesso, si mettono anche le Province, istituzioni che la Lega vorrebbe riportare all'antico "splendore", considerate un inutile spreco dal Movimento 5 Stelle. «Adesso le Province non sono né carne né pesce. Ci sono presidenti, dipendenti e amministratori, ma non ci sono soldi e poteri. Il risultato è che le strade e le scuole restano senza manutenzione. Le cose o si fanno bene o non si fanno. E io sono convinto che si debbano fare», dice il segretario del Carroccio, prima di puntare direttamente il dito contro gli alleati: «Il problema è che cambiano idea troppo spesso. Non solo in questo caso. Ma anche sulla flat tax, sull'immigrazione o sulle autonomie. Non si può dire contemporaneamente sì, no e forse. Se poi Di Maio ha un modo per sistemare scuole e strade senza enti intermedi sono pronto ad ascoltarlo. Però mi secca lavorare settimane per scoprire che hanno una nuova opinione», argomenta piccato. Le seccature provenienti dalla "convivenza" in maggioranza cominciano a essere molte, «troppe, a essere sincero», sostiene il ministro dell'Interno. «Però mi sono imposto un atteggiamento buddista. Lavoro e non rispondo alle provocazioni e agli insulti che sono pressoché quotidiani. Resisto perché la gente in piazza mi chiede di andare avanti, di pensare al fisco, ai disabili, alla sanità. Alle cose concrete, insomma». Per la replica di Di Maio non bisogna attendere molto. «Questa storia delle Province mi sembra assurda», scrive su Facebook il leader pentastellato. «Io altre 2500 poltrone in più dove i partiti possono piazzare i loro amici non le voglio. Nel progetto complessivo di governo non ha proprio senso aprire 2500 poltrone nuove, peraltro pagate con i soldi degli italiani. È una cosa che non permetteremo. Non mi va giù», tuona il ministro del Lavoro. «Ci sono territori abbandonati? È vero, purtroppo, ma non si aiutano certo rimettendo in piedi un vecchio carrozzone e tirando fuori dal cilindro altri assessori, altri consiglieri, altri presidenti. Ma per favore, non prendiamoci in giro!». Conte, da Pechino, osserva con preoccupazione la litigiosità dei due soci di governo, consapevole che a breve un altro tornado è atteso a Palazzo Chigi: la decisione sul futuro politico di Armando Siri, il sottosegretario ai Trasporti indagato per corruzione. Il premier confida di poter incontrare domani l'esponente leghista, di cui i grillini invocano le dimissioni, a costo di far saltare l'intesa di governo. Ma il Carroccio non ha alcuna intenzione di assecondare la smania "punitiva" dei grillini, e sulla Stampa avverte: «Conte faceva l'avvocato non il giudice. Mi rifiuto di vivere in un paese con 60 milioni di presunti colpevoli. Non siamo in Unione Sovietica. Non possiamo essere un paese che ha paura di tutto. Un paese in cui i sindaci tengono fermi gli appalti perché temono la Corte dei Conti o il Tar. Non ce lo possiamo permettere. E se i Cinque Stelle la pensano diversamente sbagliano. Fortunatamente la magistratura è piena di gente equilibrata».