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Non fate studiare musica ai vostri figli. Non ne vale la pena. Se lo fate per il denaro, per la fama, insisto, è un consiglio spassionato: lasciate perdere. Avreste speso i vostri soldi per le lezioni, per i software, per costosissimi strumenti, assolutamente per nulla. E’ il peggior investimento che possiate fare, quindi non fatelo. Vi ritroverete con dei figli frustrati, incapaci di misurarsi col mondo del lavoro: troppo artisti per i tecnici, troppo tecnici per gli artisti.Se lo fate per il prestigio men che meno. Non esiste categoria più bistrattata dagli impresari (ai quali bisogna cedere una parte dei propri guadagni per essere chiamati a lavorare), dai direttori di studio, dai produttori. Per non parlare dei padroni di casa, dai direttori di banca, dai proprietari di una concessionaria di auto:“che mestiere fa lei?”“il musicista”“ah… e poi?” E poi niente testa di cazzo! Ho studiato all’ incirca vent’anni (il doppio di un neuro chirurgo, il quadruplo di un pilota d’ aviazione civile) di cui dieci in conservatorio, ho registrato dischi, fatto televisione, suonato dal vivo per decine di migliaia di persone… te che cazzo fai oltre a stare seduto dietro quella scrivania a rifilare alla gente prodotti finanziari truffaldini, metri quadrati “commerciali” o auto “in ottime condizioni”? Vi descriveranno come artistoidi, ipersensibili, sognatori, sconclusionati, eccentrici o al limite con un qualsiasi segno zodiacale “acquario, audace!”. Lo volete così vostro figlio? Perché fargli questa cattiveria? Tanto ve lo dico subito: il lavoro (di musicista intendo) non lo trova.
Passerà anni uscendo la sera, conoscendo gente, bevendo alcolici, facendo jam session gratis per entrare nelle grazie di qualche gestore di locale che gli farà fare qualche serata per pochi soldi. O nel caso della musica classica starà a leccare il culo a qualche professore portando il caffè o sostituendolo con gli allievi principianti a lezione quando quest’ultimo andrà a prendere il caffè (senza portarglielo) sperando che il “mentore” lo possa aiutare in qualche concorso o che gli passi un lavoro quando gliene capita uno migliore. Insomma un bel “vaffanculo” al mondo dell’ arte, al conservatorio, alle notti in bianco passate a studiare i contrappuntisti fiamminghi, alle tendiniti per preparare il concorso per il Teatro Regio di Parma, allo stile, al linguaggio, all’analisi della partitura, alla settima che risolve per grado congiunto.E così: c’ è un matrimonio da fare in tre però i soldi sono pochi perché se no chiama il piano barista con le basi? Andiamo. C’è un attore che vuole fare un recital di canzoni anni trenta? Eccomi.C’è una cantante che un tempo era la corista di Caterina Caselli che vorrebbe rifare in chiave jazz Battisti (e tu hai sempre odiato Battisti)? Ci penso io a mettere su un gruppo.Vivo in Italia il paese del mondo col maggior numero di conservatori e col più basso numero di orchestre stabili.
Il mio diploma del conservatorio non l’ ho mai neanche ritirato (tanto al massimo avrei potuto appenderlo al cesso). Non dico che in Italia non ci siano bravi musicisti, ma solo che a pochi è permesso dimostrarlo. Che ne è di tutti quelli che, a parità di qualità creativa, non sono mai riusciti a fare un concerto neanche al pub sotto casa perché non garantiscono un adeguato numero di prenotazioni? Che ne è di quelli che dopo anni di umiliazioni mollano tutto e vanno a fare gli assicuratori?Rido quando sento la lagna degli architetti che si lamentano che non lavorano. Idioti! Ringraziate il cielo che avrete sempre una cascina da demolire, un abuso edilizio da mascherare, dei sanitari da spostare per creare una camera per il bambino. Voi almeno vendete qualcosa che può servire. Perché un gestore dovrebbe pagare un gruppo che suona se può ottenere un risultato molto più soddisfacente, con molti meno fastidi e spese, semplicemente mettendo una playlist dal suo lettore mp3? La musica una volta era una merce preziosa, per ascoltarla dovevi prendere la carrozza o chiamare dei musicisti, condividere il tuo spazio e il tuo tempo con gli esecutori. Poi con l’ avvento del supporto fonografico (il disco) abbiamo sentito la musica di artisti che altrimenti avremmo impiegato decenni per conoscere, ma nel contempo abbiamo cominciato a considerarla meno preziosa. Bastava mettere un disco e in casa avevamo Louis, Duke, Charlie, Thelonious, Frank, Jerry Lee, i Beatles, Jimi, gli Zep che ci facevano compagnia mentre stavamo con gli amici, studiavamo o lavavamo i piatti; ma nel contempo abbiamo cominciato a prestarle meno attenzione, a darla per scontato, non dovevamo più fare silenzio per ascoltarla. Fateci caso: ogni volta che un disco viene presentato alla stampa, il giornalista di turno gli chiede sempre: “Di che parla questa canzone?”
Ma (come diceva Shoenberg) la musica esprime quello che a parole non si può dire. Da ciò si evince che in Italia una canzone è fatto al sessanta percento dalle parole, al venti dal look dell’ artista (solo nel caso sia già affermato potrà vestirsi come gli pare), da un quindici di marketing. Agli arrangiamenti, alle note suonate spetta si e no un cinque percento da condividere con la fonica. Ora nell’epoca degli Mp3, dei software pirata, dello streaming, possiamo avere più musica di quella che potremmo ascoltare in tutta la vita. Chiunque con un po’ di applicazione può produrre un disco in casa sua, solo che non c’ è più nessuno in grado di ascoltarlo (e quando ascoltare intendo proprio ascoltare le note, apprezzare gli arrangiamenti, godere delle ore necessarie per trovare il giusto suono della cassa, non metterlo su e leggere il giornale, fare le telefonate agli amici, preparare la lista della spesa), al massimo se avrà molta fortuna un brano verrà programmato, dietro lauto compenso, dai network nazionali per poi finire sulla playlist di una tredicenne che lo ascolterà da quegli assurdi altoparlanti di un telefonino camminando mano nella mano con l’ amica del cuore. Però c’è una cosa che voglio aggiungere: la musica guarisce. Si avete capito bene la musica guarisce, e non parlo di guarire dalla malinconia, della tristezza o dalle angosce quotidiane, ma di sciatalgie, lombalgie, dolori di stomaco, influenza e quant’ altro.
Non c’ è musicista che dovendo andare a suonare nella marchetta più ignobile, nel pub più fetido o nel matrimonio più volgare con l’ ulcera, la schiena incastrata o 39 di febbre, al termine del concerto (per qualche insondabile legge dell’ universo) non si sia sentito meglio. Quindi “venghino siòre e siòri lo spettacolo d’ arte varia ha inizio” e anche se nessuno ascolterà il vostro pargolo diventato uomo, la musica potrà essere per lui un buon modo per evitare di avere a che fare con un servizio sanitario nazionale che corre veloce verso la privatizzazione.