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L’Unione europea - che ha ufficialmente annunciato la sospensione del patto di stabilità - si è rassegnata a cedere tutti i poteri in materia di emergenze sanitarie. La salute, infatti, era un settore in cui Ue e Paesi membri avevano potestà “concorrente”, poi retrocessa a “condivisa”. Col Trattato di Lisbona siamo scesi alle “riunioni di incoraggiamento”. Proprio nella assai preoccupante situazione di questi giorni, sta emergendo la lentezza dell’Unione europea. A rincarare la dose si è affiancata nei giorni scorsi l’insolita – e infelice – presa di posizione della presidente della Bce Christine Lagarde, presto fortunatamente rettificata. E ancora, analizzando la storia dell’integrazione europea, si scopre come l’Ue, che cerca di far fronte comune dinanzi all’emergenza coronavirus, persegua l’obiettivo ingranando almeno una o due marce più basse rispetto al sogno europeo originario. Altiero Spinelli, per intendersi, immaginava uno scenario ben diverso.
In materia di salute, possiamo oggi ricostruire le tappe di un iter complesso e purtroppo inadeguato rispetto a una maggiore integrazione europea. Risale al 1984 il “Progetto Spinelli”, approvato dal Parlamento europeo, secondo cui la competenza per l’azione dell’Ue nella lotta alle epidemie e alle catastrofi avrebbe dovuto essere concorrente con quella degli Stati membri: come in Germania, dove gli Stati federati agiscono solo là dove non interviene il livello federale, così le istituzioni europee avrebbero dovuto poter scegliere il metodo più efficace per agire a tutela della salute dei cittadini.
La storia successiva, tuttavia, ha seguito un corso differente. Già all’epoca della Convenzione del 2002, che aveva elaborato il Trattato per una Costituzione, poi bocciato da Francia e Olanda nel 2005, si era passati dall’idea di competenze concorrenti a quella di competenze “condivise”. Successivamente, come ricorda Pier Virgilio Dastoli, allievo di Spinelli e presidente di un’organizzazione europeista per definizione quale il “Consiglio italiano del Movimento Europeo”, «la politica della salute è stata retrocessa nel Trattato di Lisbona al rango di una competenza di sostegno o di incoraggiamento, e ciò riguarda anche il settore della protezione civile. Di più: il Trattato di Lisbona prevede dei limiti al mercato interno per proteggere la salute all’interno degli Stati membri».
Persino Mario Monti, rappresentato sui media come il tecnico di alto livello giunto improvvisamente nel 2011 a cambiare radicalmente gli schemi dell’Italia, su volere dell’Europa, si arrende all’evidenza. Non esita a dire che «questi sono i casi in cui si testano i limiti del processo di integrazione europea. È grave e bisognerà modificare il meccanismo che ha consentito ai singoli Stati membri di tenere strette le competenze sulla salute pubblica», è il suo impegnativo auspicio.
Eppure è anche vero che, proprio sfogliando il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, si può trovare più di un riferimento a una modalità di azione che, per quanto di sostegno, possa essere vigorosa ed efficace: si tratta degli articoli 168 e 196. Il primo è dedicato proprio alla salute pubblica e afferma che l’Unione deve poter garantire «un livello elevato di protezione della salute umana» attraverso un’azione «che completi le politiche nazionali». Il secondo evoca la «cooperazione tra gli Stati membri al fine di rafforzare l’efficacia dei sistemi di prevenzione e di protezione dalle calamità naturali o provocate dall’uomo» con un’azione volta a «sostenere e completare l’azione degli Stati membri a livello nazionale, regionale e locale concernente la prevenzione dei rischi, la preparazione degli attori della protezione civile negli Stati membri». È necessario promuovere – afferma ancora l’articolo 196 – «una cooperazione operativa rapida ed efficace all’interno dell’Unione tra i servizi di protezione civile nazionali».
Distante dal disegno originario di una federazione europea, l’Ue di oggi mostra la sua incompiutezza in quest’ambito, come del resto anche in quello delle politiche industriali e della sicurezza. Il fatto che, sulla carta, i Trattati fissino il principio di solidarietà europea, a garanzia di una tutela elevata della salute, appare come una ulteriore conferma dei riflessi in realtà alquanto lenti dell’Unione. Ma gli Stati europei presi singolarmente non possono pensare di farcela da soli. Un’emergenza sanitaria quale quella che si sta vivendo oggi dovrebbe piuttosto convincere molti che è necessaria un’Europa dei cittadini, con risorse adeguate a garantire che alle dichiarazioni di principio corrispondano azioni ad impatto adeguato alla posta in gioco: in questo caso, la vita umana.