EDITORIALISTA, SCRITTORE

Una storia tormentata. Una storia di passioni e di incomprensioni, di rotture e di ricomposizioni. Una storia politica di quando c’era la politica e di un partito morente che non mostrava di volersi arrendere: il Pci. La racconta uno dei protagonisti della stagione più drammatica ed intensa di quello che fu il movimento coagulante tutta la sinistra italiana, il Partito comunista più grande d’Occidente che seguì la mesta china del comunismo europeo e sovietico dopo il 1989.

Claudio Petruccioli è il “narratore” di quegli anni che vanno dalla caduta del Muro di Berlino e la frana elettorale del 1994 all’affermazione del centrodestra di Silvio Berlusconi nel quale si sfasciò la “gioiosa macchina da guerra” di Achille Occhetto, l’ultimo segretario del del Pci ed il primo della nuova “Cosa”, come la si definì per non definirla che da quelle ceneri doveva nascere. Sarebbe stato il Pds, poi Ds, poi anche Pd dopo la “fusione a freddo” tra gli ex- comunisti moderati, anzi socialisti, forse socialdemocratici, improbabili lib- lab senza mai ammetterlo, e la sinistra post- democristiana.

A circa trent’anni da quegli eventi squassanti, Petruccioli, da protagonista di primo piano della disfatta e della trasformazione del comunismo italiano, offre un Rendiconto ( La nave di Teseo, pp. 346, € 20) appassionato e puntuale delle vicende che contribuirono a modificare gli assetti politici generali della politica italiana dando luogo a nuove aggregazioni, inconsapevolmente spingendo la sinistra a provare la navigazione in mari sconosciuti, dall’adesione all’Internazionale socialista alla costruzione di nuove alleanze, alla formulazione di proposte “liquide” di stampo liberal- democratico.

Il pregio maggiore del libro di Petruccioli, è la sincerità nel rievocare i fatti che cambiarono la vita di milioni di persone e modificarono la percezione stessa della sinistra.

Dalla Bolognina, davanti ai partigiani increduli e sconcertati che ascoltarono Occhetto il 12 novembre 1989 allo scioglimento del Pci il 13 febbraio 1991, al Congresso dal quale uscì il soggetto nuovo, il cammino fu in realtà una scalata segnata in primo luogo dalla disputa sul nome del partito.

Petruccioli fu uno di quelli che, da realista politico, prendendo atto della situazione irreversibile, creatasi a livello internazionale, ne sosteneva il cambiamento, anche se, in condizioni diverse, nel 1989, in una intervista a Repubblica, rilasciata il 10 ottobre, pochi giorni prima delle “giornate fatali”, dopo i fatti ungheresi che diedero il via all’effetto domino nell’Est europeo, rigettò la richiesta che veniva fatta da più parti di mutare nome al Pci: «Non scherziamo. Il partito ungherese giunge oggi, dopo un lungo travaglio, all'approdo della democrazia e del pluralismo. Il Pci è da gran tempo su questa sponda. Nessun parallelo è possibile... Noi non siamo mai stati né un partito di regime né un partito di comando, la libertà nel nostro Paese non l'abbiamo mai conculcata, l’abbiamo anzi conquistata e difesa. Un partito deve cambiare nome quando sente di avere responsabilità insostenibili verso il Paese in cui opera. Sinceramente, di che cosa ci dovremmo vergognare noi di fronte al popolo italiano?».

Non aveva tutti i torti, tanto che quando il problema realmente si pose, cioè a dire dopo la catastrofe berlinese e le contorsioni che dal Cremlino mostrarono il fiato corto di un regime morente, Petruccioli fu tra i sostenitori del cambiamento anche perché si rese conto, come spiegò ad Alessandro Natta, da un anno non più segretario del partito, che sarebbe stato impensabile non prendere atto delle situazione e delle circostanze che di giorno in giorno offrivano materia per un ripensamento. Natta, dopo un lungo e deprimente ragionamento rispose in modo a di poco allucinante: «Ha vinto Hitler!».

Con questi dirigenti il Pci era davvero finito. «Credo di aver capito lì - scrive Petruccioli- quanto ciascuno di noi sia legato all’esperienza che gli capita di vivere. Natta, con acume ha colto subito la portata storica degli eventi; la considera pari agli effetti della seconda guerra mondiale. Ma la legge con le categorie di allora... Neanche per vaga ipotesi potrebbe pensare che dalla caduta del Muro possa nascere qualcosa di positivo».

Petruccioli, invece, coglie gli aspetti innovativi che la fine del “mondo di ieri” propone, ma guarda con l’occhio del politologo, più che del dirigente di partito, almeno questa è l’impressione che si ricava dal Rendiconto, gli eventi che si svolgono davanti a lui, il congresso della scissione, le dinamiche interne alla maggioranza occhettiana, il ruolo dei “colonnelli” come D’Alema, Weltroni, Fassino, Mussi; dei “senatori” come Napolitano, Ingrao, Tortorella, Pajetta, Chiaromonte; gli irriducibili come Cossutta, Garavini e la compagnia che poi si ritroverà in Rifondazione comunista.

Ma lo sguardo di Petruccioli è molto più lungo e non si ferma sul marciapiede di Botteghe Oscure dove la nomenklatura tenta di decifrare guardando il palazzo che custodisce la memoria comunista di oltre quarant’anni. Spazia lontano, raccoglie gli indizi del cambiamento e, pur non esplicitandolo, fa capire che non tutto gli piace di quel carrozzone formatosi con l’ambizione di riformare addirittura la sinistra. Già nel 1994 si rende conto che il deficit di linea politica non porterà da nessuna parte il Pds. Dopo la sconfitta elettorale, Achille Occhetto, scrive, «avrebbe dovuto derivare l’impegnò a completare la svolta». Perché non lo fece?

Petruccioli non sarà d’accordo, ma credo che prevalse ancora una volta il “pregiudizio della superiorità”. Un intelligente dirigente socialista, Rino Formica, disse: «Berlinguer e i suoi successori hanno peccato di presunzione. Hanno creduto di poter guidare il disfacimento del sistema perché erano la forza più robusta e organizzata. In fondo questo è l’ennesimo frutto velenoso del richiamo alla diversità, della convinzione di essere i migliori, di una mentalità che gli eredi di Berlinguer non hanno ancora abbandonato, benché siano ridotti al 16 per cento». Era il 1994.

Tra qualche mese si celebrerà il centenario della nascita del Partito comunista dalla scissione di Livorno del 1921. Sarebbe utile un “Rendiconto” più vasto per comprendere come il fallimento dell’ultimo Pci e le difficoltà della sinistra attuale siano figli legittimi di quel parto innaturale.