Pavel Filatyev ha partecipato all’invasione e combattuto in Ucraina Tornato a casa, ha rinnegato la guerra e ha dovuto lasciare il Paese

Quando, nell’avanzata verso la città di Kherson, è rimasto intrappolato sotto il fuoco dell’artiglieria ucraina in un budello di fango e alberi radi, Pavel Filatyev ha avuto un pensiero comune a molti soldati: «Ma che diavolo ci faccio qui?! A cosa diavolo serve tutto questo?! Poi, in quella tempesta di fuoco, ha spinto ancora più in là il suo pensiero: «Se riuscirò a sopravvivere mi batterò perché questa guerra finisca al più presto!». Se l’è cavata con qualche ferita non grave e una brutta infezione agli occhi da cui sta lentamente guarendo.

Però non ha voluto disertare, e abbandonare i suoi compagni: «Non sono un ministro, non sono un generale, non sono Putin, scappando non avrei cambiato nulla, sarei solo stato un codardo anche se detesto questa guerra».

Oltre che fortunato è stato anche di parola l’ex paracadutista dei corpi speciali russi che ha partecipato alla prima ondata dell’invasione, quella che lo scorso 24 febbraio ha riportato la guerra nel cuore dell’Europa. Appena è tornato a casa, circa tre mesi dopo, Filatyev si è messo a scrivere un diario di guerra dal nome Zov sul social network VKontakte, 141 pagine di racconti serrati e raggelanti, gli assalti ai villaggi, le grida dei feriti, le rappresaglie sui civili, lo sciacallaggio, ma anche il dolore per le migliaia di compagni uccisi e mandati al macello per le ambizioni del Cremlino e dei generali.

Ha rotto la cortina di omertà pronunciando più volte la parola “guerra”, bandita pubblicamente dal regime di Putin per il quale l’invasione si chiama “Operazione speciale”. «Non vedo giustizia in questa guerra, non vedo verità», dice in un’intervista al quotidiano britannico The Guardian, «non ho paura di combattere ma ho bisogno di farlo per qualcosa di giusto. E non potevo restare in silenzio, lo so che così mi sto mettendo nei guai e che forse non cambierò nulla». Che la sua denuncia non cambierà nulla non è dato saperlo, senz’altro è finito in un mare di guai.

Tanto che pochi giorni fa ha lasciato la Russia, convinto e aiutato dall’ong per i diritti umani Gulagu. net: ufficialmente è il primo soldato russo fuggito all’estero per l’opposizione politica al conflitto. Lo ha fatto a malincuore, voleva restare in patria, partecipare a una campagna pubblica di opposizione alla guerra. Ma l’unica conseguenza sarebbe stata finire in prigione e poi venire condannato per tradimento.

Membro del 56esimo reggimento d’assalto aereo, Filatev è entrato in Ucraina continentale dalla Crimea, prima partecipando all’assalto dello scalo marittimo di Mariupol e poi nell’inferno di Kherson dove si è combattuto con ferocia per settimane.

Quando i russi sono entrati in città sono cominciati i saccheggi. «Erano famelici, rubavano tutto, specialmente smartphone, computer, tablet, un po’ per quello spirito razziatore del post battaglia, un po’ perché in Russia nessuno di noi può permettersi di comprarli».

Filatyev racconta dello stato pietoso in cui versava il suo reggimento, male equipaggiato, esausto, divorato dalla fame e dalla sete: «Arrivati a Kherson entravamo nelle case e nei negozi e mangiavamo di tutto, come dei selvaggi, da più di un mese non ci lavavamo o consumavamo un pasto normale. Mi sentivo un disgraziato in lotta per la sopravvivenza, intorno a me una sensazione di viltà e disonore». Ma anche paura e disperazione, al punto che alcuni soldati pur di fuggire dal fronte si sono automutilati, sparandosi sulle gambe per ottenere il risarcimento di 40mila euro promesso dal Cremlino ai reduci. Ma non sempre arrivano, come quelli alle famiglie delle vittime di guerra che da mesi aspettano l’assegno del ministero.

«La gran parte del personale dell’esercito è scontento di Putin, dei generali e del ministro della Difesa che non hai prestato servizio un giorno in vita sua». E gli ucraini? «Ci hanno detto che sono nazisti ma non è così, molti miei commilitoni in segreto hanno confessato la loro ammirazione verso questa gente che difende le proprie case e la propria terra».