PHOTO
VITTORIO MANES DOCENTE
Proseguono in Commissione Affari costituzionali del Senato le audizioni in merito al disegno di legge costituzionale che vorrebbe inserire nell’articolo 111 della Costituzione, quello sul giusto processo, anche la tutela per «le vittime di reato e le persone danneggiate dal reato». Tra i giuristi ascoltati diversi si sono mostrati perplessi: tra loro il professor avvocato Vittorio Manes, Ordinario di Diritto penale nell’Università di Bologna, con cui approfondiamo il tema in questa intervista.
Che ne pensa del ddl costituzionale in discussione?
Devo confessare le mie perplessità, perché mi pare una modifica da un lato superflua, dall’altro portatrice di possibili effetti distorsivi sulle dinamiche del processo penale: il rischio, in altri termini, è di inserire nella Costituzione una norma declamatoria, o simbolica, che però potrebbe generare degli slittamenti rischiosi per l’architettura del processo, dove la vittima, già ora, ha guadagnato un posto sempre più protagonistico, dentro e fuori dalle aule giudiziarie.
Andiamo con ordine: perché la ritiene superflua o declamatoria?
Tutto il sistema della giustizia penale è pensato per offrire tutela alla vittima del reato, ove questa venga riconosciuta tale all’esito del processo. Riconoscere espressamente questo compito di tutela nella Costituzione mi pare che non aggiungerebbe, dunque, nulla di nuovo. Anzitutto, nel “blocco di costituzionalità” entrano atti normativi (o paranormaitvi) sovranazionali che vincolano già lo Stato alla tutela della vittima, come convenzioni internazionali, la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, le più recenti Direttive dell’Ue, che hanno riconosciuto con sempre maggior impegno e precisione diritti e facoltà della vittima.
In che termini?
Dal diritto ad ottenere informazioni “fin dal primo contatto con un’autorità competente”, al diritto di ottenere assistenza medica; dal diritto all’interpretazione e alla traduzione, al diritto all’assistenza e al patrocinio gratuito; sino al diritto di essere sentita, al diritto di interpello – o di appello - in caso di decisione di non esercitare l’azione penale e così via. Del resto, mi pare che la gran parte delle carte costituzionali di Paesi a noi vicini (come Francia, Germania, Austria, Belgio) ed anche costituzioni recenti (come la costituzione spagnola) o testi di rango costituzionali (come lo Human Rights Act in Inghilterra) non presentino una espressa menzione al principio di tutela della vittima, perché questo è implicito nel sistema. L’espressa menzione della tutela della vittima nella Carta fondamentale avrebbe dunque una funzione per lo più “espressiva”: ed un utilizzo simbolico-espressivo, della Costituzione, finisce per svilirla, per trivializzarla, come fosse un testo suscettibile di modifiche di “pronto consumo”, con il rischio di una “volgarizzazione” della legge fondamentale, o come si è detto, di una sua “macdonaldizzazione”.
Quali i pericoli per il giusto processo?
Temo che non si possano escludere possibili effetti distorsivi, perché il principio inserito – oltre ad enfatizzare un ruolo già pienamente riconosciuto alla vittima - potrebbe poi generare ulteriori concretizzazioni, o ulteriori “corollari”, tutti nella direzione di una accentuazione della presenza della vittima e di una sua crescente “protagonizzazione”, sin dagli inizi del processo, e quindi anche prima di un compiuto accertamento dei fatti e delle responsabilità. La presenza della vittima, nel corso del processo, è sempre un fattore emotigeno, ed è per questo che l’evoluzione del processo penale ha ritenuto di limitarne il ruolo, per neutralizzare le spinte emotive che questo necessariamente implica e che – del tutto comprensibilmente – reca con sé. Ognuno sa che, nella realtà dei processi, la vittima non chiede solo giustizia, ma chiede condanna; le parti civili non si attendono solo una risposta in termini di verità o di giustizia, ma si attendono una risposta in termini di condanna, dove venga riconosciuta la “loro” verità. Ce lo ricordano, dolorosamente, le reazioni delle parti civili di fronte a sentenze di assoluzione, le aggressioni ai giudici che hanno avuto il coraggio di assolvere o magari anche solo di riconoscere una circostanza attenuante o di irrogare una pena che non soddisfa le aspettative delle vittime. In tutti questi casi la risposta viene vissuta come un episodio di “denegata giustizia”.
Ennio Amodio al Dubbio ha detto: "Sarebbe una legge-manifesto finalizzata solamente a ridimensionare il garantismo espresso dalla norma costituzionale sul giusto processo". Lei è d’accordo?
Sono d’accordo e mi pare che questa autorevole opinione trovi una ampia condivisione nella comunità degli studiosi più sensibili ai principi del processo penale liberale. Senza contare che questo principio, come accennavo, potrebbe generare altri “corollari”, con una china sempre più scivolosa: dal principio costituzionale di tutela delle vittime è infatti facile immaginare che possa farsi discendere non solo un obbligo di tutela delle vittime in capo allo Stato, ma un vero e proprio obbligo di protezione “penale”, che legittimerebbe o persino imporrebbe un utilizzo ancor più compulsivo del diritto penale al cospetto di ogni “nuova” vittima. E non si può escludere che, su questa scia, si giunga poi a riconoscere a chi rivendichi lo status di vittima, sin dagli esordi del procedimento, un vero e proprio diritto non solo alla verità o ad ottenere giustizia, ma ad ottenere la punizione del colpevole. Un autentico “right to punishment” che, a quel punto, dovrà essere garantito da un ordinamento penale – e da un giudice - che non opererà più con la doverosa distanza di chi guarda la scena dall’alto, da una posizione di imparzialità rispetto alle parti, ma che guarderà la scena con gli “occhi della vittima”: conducendo ad un sistema di giustizia, in altri termini, che rischia di identificare l’unico esito accettabile del processo nella condanna e l’unica risposta accettabile al delitto nella pena. Ma non è la condanna l’unico esito del processo, né la pena l’unica risposta al delitto.
Ci sono state diverse polemiche perché nel processo a carico di Filippo Turetta non sono state ammesse diverse parti civili, fatta eccezione per il padre e la sorella della vittima. A prescindere dal singolo caso, lei ritiene che le parti civili siano compatibili con un rito accusatorio?
La proliferazione delle parti civili non giova al processo accusatorio e spesso rappresenta un peso molto gravoso per lo svolgimento del processo e la sua ragionevole durata; tanto più quando chiedono di essere riconosciute come parti civili soggetti che possono lamentare un danno solo indiretto rispetto alla concreta vicenda che il processo deve accertare. Credo che sia da ripensare profondamente il rapporto tra azione civile e processo penale, perché spesso la prospettiva civilistica segue scopi e criteri che finiscono per confliggere con quella penale, come ha evidenziato la recente, apprezzabilissima decisione delle Sezioni Unite sulla questione del criterio decisorio da seguire in caso di decisione sull’impugnazione agli effetti civili in caso di reato prescritto.
Dietro tutto questo possiamo dire che c’è una ascesa del paradigma vittimario?
Mi pare difficile disconoscere questo trend, già ampiamente dispiegato, e non è una tendenza positiva: la vittima deve restare al centro della domanda di giustizia, ma una giustizia che mette al centro la vittima rischia di vedere profondamente alterati i propri equilibri.