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Parafrasando un po’ ironicamente Karl Marx, si può dire che un fantasma aleggia in Italia: quello dell’idem sentire tra forze politiche. Caldeggiato dal presidente Mattarella e puntualmente disatteso. Il lessico politico traduce l’invito del Colle nelle larghe intese: e già questo è un ostacolo. Però al di là delle schermaglie verbali, la questione resta. Soprattutto alla vigilia di un passaggio difficilissimo come sarà l’autunno. Perché l’idem sentire non decolla? Qual è il male oscuro che ci fa sempre divisi (lo canta anche Mameli...)?
Luciano Violante, che nella Prima repubblica si beccò una valanga di contumelie per aver invitato a riconoscere la dignità anche di chi aveva aderito a Salò e, diciamo così, era morto dalla parte sbagliata della barricata, una spiegazione ce l’ha. «Sono le storie politiche quelle che contano. Nella cosiddetta Prima Repubblica, tutti i partiti politici avevano una storia comune. Persino il Msi attingeva a quel serbatoio, seppur sul fronte opposto. Nella fase che viviamo, i partiti politici hanno storie diverse l’una dall’altra; perciò è difficile una lingua comune e persino il rispetto».
Infatti vige il dialogo tra sordi. E allora?
«Va costruito un percorso che favorisca la reciproca comprensione. Il richiamo costante alle elezioni come palingenesi da parte di chiunque sia all’opposizione è tanto frequente quanto illusorio. Le elezioni trasformano i voti in seggi. Punto e basta. Cosa fare di quei seggi lo decidono le forze politiche, nella loro responsabilità. Come si é visto nella crisi del primo governo Conte aperta dalla Lega. Inoltre dialogare con l’avversario non è l’anticamera del governo comune; è solo una normale pratica democratica. Come fu fatto nella prima fase della Bicamerale di D’Alema.» .
Si tratta di un fraintendimento oppure una strategia per affossare il dialogo?
«Ci sono forze politiche giovani e dunque ancora “bambine” nel senso positivo del termine. Che devono ancora costruirsi un proprio ubi consistam, un proprio stare nella vicenda politica italiana. Vede, io credo che un partito debba sempre chiedersi: ma io che ruolo intendo svolgere nella storia di questo Paese, quali valori intendo rappresentare, quali obiettivi perseguire e attraversi quali mezzi. Per farsi queste domande “identitarie”, bisogna superare la fase adolescenziale, che é inevitabile, ma dev’essere transitoria. Se torniamo al Presidente Mattarella, occorre andare oltre un titolo di giornale, dovrebbe essere la base per uno sforzo condiviso».
A proposito di compatibilità da costruire. Lei lo fece con l’Msi. Ma se manca la storia comune, come si fa a realizzare un linguaggio di comprensione reciproca?
«A quel tempo io richiamai con forza la necessità di riflettere sul fatto che tanti giovani, fermo restando che fecero la scelta sbagliata, decisero di schierarsi con Salò pur sapendo che tutto era perduto. Qualcuno, appunto fraintendendo, parlò di parificazione: l’avevo esclusa espressamente. Ma un Paese maturo discute della propria storia per rinvigorire la propria identità, i propri caratteri, la propria natura».
Così torniamo al punto di partenza: perché di questo non c’è traccia?
«C’è bisogno di idee di futuro. La Lega avrà idea di un futuro diversa da quella del PD e viceversa, ma un’idea di futuro ci dev’essere perché i partiti non sono bocciofile. La differenza tra governare e amministrare sta proprio in questo. Chi governa pensa al futuro; chi amministra pensa al presente».
Concretamente cominciando da dove?
«Prendiamo il tema della fiducia. Nella legislazione e nella cultura politica prevalgono sospetto e sfiducia. Occorre una nuova cultura politica che riconosca il valore della fiducia».
Lei parla di forze bambine che devono maturare, e il pensiero corre ai Cinquestelle. Ma forse il tempo della maturazione non ce l’abbiamo. Forse bisogna agire subito. E poi queste forze nascono e agiscono sulla volontà di azzerare il passato, la storia comune, Parlamento compreso.
«I Cinquestelle hanno avuto il merito di rappresentare un sentimento reale del Paese, altrimenti non avrebbero avuto tutti quei voti. Le forze più tradizionali non sono state in grado di raccogliere il sentimento di emarginazione molto presente nell’elettorato. In secondo luogo, è inevitabile che chi nasce nuovo si ponga in contrapposizione con ciò che c’era in precedenza. I figli contestano i padri, i giovani contestano i vecchi. Ma i Cinquestelle, per l’esperienza di governo, stanno rapidamente acquisendo atteggiamenti più consoni alle loro responsabilità. Lei dice: non si può attendere. Però la storia di un Paese non si costruisce da un giorno all’altro. Sono necessari spostamenti continui e progressivi. Bisogna sempre riconoscere il positivo c’è negli altri».
E la democrazia diretta, lo svuotamento del Parlamento eccetera: anche quelli sono spostamenti che vanno valutati positivamente?
«C’è stata una cultura politica che aveva a cuore la deparlamentarizzazione del sistema politico. Referendum legislativo, introduzione del vincolo di mandato, riduzione del numero dei parlamentari lasciando intatto il bicameralismo perfetto. L’effetto darebbe stato, non so se voluto, l’azzeramento della rappresentanza politica. E’ rimasta solo l’ultima istanza che però potrebbe produrre danni gravi.».
Proviamo a rovesciare il discorso. Con la destra di Salvini e Meloni, quale dialogo è possibile?
«Perché no? Il dialogo è doveroso. Dialogo non vuol dire essere necessariamente d’accordo. Vuol dire capire le ragioni dell’altro e, se necessario, correggere le proprie. Un partito rappresentato in Parlamento è legittimato eccome a dialogare. In Parlamento si sta per parlare con quelli che non la pensano come te.».
Torno alla fiducia. Non è che non c’è perché manca il sentimento di appartenenza comune? Perché non c’è consapevolezza di stare sulla stessa barca?
«Io credo che le barche siano diverse. Il vero nodo è che bisogna confrontarsi sul futuro, non sul presente. Sapere che idea c’è dell’Italia tra 15- 20 anni. E’ importante avere una prospettiva. La politica è fatta di capacità strategiche, non di perenne immersione nel quotidiano.».
Presidente, ma l’atteggiamento degli italiani non è di rassegna- zione, di paura, di rabbia?
E i partiti non fanno forse altro che cavalcare questi sentimenti, vellican do la “pancia” degli elettori?
«Le disponibilità si costruiscono, non è che preesistono. Se il pensiero principale è “come arriviamo alla fine dell’anno”, continueremo a litigare e basta. Se invece cogliamo questa occasione per una nuova fase nella vita del Paese, allora le cose cambiano. E gli italiani rispondono. Chi avrebbe mai pensato che ad una richiesta di 300 medici e 300 infermieri se ne sarebbero presentati in totale sedicimila? Nella società esiste una disponibilità vera, reale, concreta. Nascosta sotto una crosta di una apparente indifferenza, c’è un’anima - ecco l’etica della Nazione di cui ha parlato Mattarella! che vuole proporsi. La grande maggioranza degli italiani ha tenuto conto delle indicazioni del governo nel corso dell’emergenza, ha avuto fiducia. Non dobbiamo fermarci alle manifestazioni esteriori, dobbiamo scendere nel profondo dell’Italia. E lì ci sono qualità rilevantissime. La capacità della politica è di farle venire allo scoperto».
Presidente, è possibile riprendere in mano il capitolo delle riforme costituzionali e di farle in modo bipartisan dopo il naufragio del referendum di Renzi?
«In queste settimane, abbiamo colto il punto più fragile del sistema Italia: Stato debole e Regioni forti. Le Regioni sono istituzionalmente forti, il governo nazionale è strutturalmente debole perché il sistema è stato costruito con istituzioni deboli e partiti forti. Quando dagli anni ’ 90 i partiti si sono indeboliti, è arrivato il collasso. Dunque bisogna rafforzare le istituzioni. Il punto è che quando il centrodestra di Berlusconi e il centrosinistra di Renzi hanno posto questo problema, i cittadini hanno detto di no. Dunque hanno votato contro l’idea di rafforzare la stabilità delle istituzioni. La lezione da trarne è che in questa materia bisogna fare il minimo indispensabile, non il massimo possibile. Cosa vuol dire? Individuare pochissime cose. Primo: la sfiducia costruttiva. Secondo, il superamento del bicameralismo paritario consegnando alla sola Camera il potere del voto di fiducia mantenendo il voto finale del Senato sulle modifiche costituzionali, sulla legge di bilancio e sui Trattati. Il Senato, inoltre avrebbe il potere di richiamare entro termini ristretti la legge approvata dalla Camera e di imporle il voto sui propri emendamenti.
Due riforme che da sole stabilizzerebbero il sistema politico e valorizzerebbero la riduzione del numero dei parlamentari.
La lascio con un aneddoto. Nelle sue memorie Kissinger ricorda di aver incontrato una volta Aldo Moro in qualità di ministro degli Esteri. «Sei mesi fa ho incontrato un altro ministro degli Esteri italiano e tra sei mesi forse un altro ancora. Come fate senza stabilità?», chiese l’ex segretario di Stato. E Moro rispose: «La stabilità di cui dovete occuparvi è quella dell’indirizzo politico dell’Italia. Poi a chi la deve portare avanti ci pensiamo noi». Solo che oggi alla instabilità dei governi si accompagna l’instabilità dell’indirizzo politico. La situazione è più grave. Perciò serve la stabilità».
( Continua.
Domani interverrà la costituzionalista Ginevra Cerrina Feroni)