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La giornalista Angela Iantosca nel suo nuovo libro, In trincea per amore. Storie di famiglie nell’inferno delle droghe, pubblicato dalle edizioni Paoline, dà voce ai familiari delle persone cadute nella dipendenza. Il metodo è quello che attraversa anche altre delle sue opere, da Onora la madre. Storie di ‘ ndrangheta al femminile, a Bambini a metà. I figli della ‘ ndrangheta.
E lo fa con uno stile che raggiunge la dignità letteraria senza nulla togliere alla verità. Dalle storie particolari emerge un mosaico fedele alla realtà, capace di emozionare il lettore, pur richiamandolo sempre alla lucidità. In appendice compaiono i dati sulla droga e i recapiti di tutte le organizzazioni citate.
Perché raccontare la droga dal punto di vista delle famiglie?
Quando presentavo il mio precedente libro, i genitori venivano da me e dicevano: «Parla di noi». La prima è stata la signora Giovanna, di Roma; me lo disse con le lacrime agli occhi. Io non ero convinta all’inizio di poterlo fare: raccontare la tossicodipendenza è, paradossalmente, più semplice, raccontare quello che un familiare di un tossicodipendente vive, è difficilissimo.
Perché difficilissimo?
Bisogna utilizzare le parole giuste, muoversi in punta di piedi ma essere anche duri e affilati per poter rendere le storie un monito per altri. Ci si assume una grande responsabilità nel farlo.
Cosa l’ha spinta a scrivere?
Ho ceduto quando un padre, Antonello, è scoppiato a piangere e mi ha detto: «Ho fatto cose che un padre non dovrebbe mai fare, ma dovevo salvare mio figlio. Perché arriva il momento in cui ti rendi conto che non stai più parlando con tuo figlio, ma con qualcosa che lo possiede. Per aiutarlo devi fare scelte difficili: denunciarlo, cacciarlo di casa, non lavargli i vestiti, non dargli da mangiare. Solo la durezza è la risposta alla droga».
Non sono decisioni laceranti per un genitore?
Per questo mi sono immersa in questo mondo delle famiglie, ribaltando la prospettiva, perché credo sia utile far conoscere quel filo comune di errori che vengono commessi, anche per troppo amore. Non parliamo di colpe, ma di responsabilità.
Però il senso di colpa c’è…
Sì, ma poi si capisce che se tu lo fai crescere dentro di te, crei una voragine ulteriore, anche per il figlio. Al contrario, l’assunzione di responsabilità è una spinta positiva. Anche gli psicoterapeuti, quando lavorano con le famiglie preferiscono parlare di responsabilità e non di colpa.
Che cosa ha incontrato nelle sue ricerche?
Mi sono trovata di fronte un mondo pieno di dolore. Però è anche un mondo che trova negli altri la forza di reagire e di iniziare un percorso di costruzione e non di distruzione. Il genitore capisce che tutto quello che ha fatto fino a quel momento, ispirato dall’amore, può essere sbagliato e che deve farsi guidare.
Ad esempio?
Racconto di una mamma che, cosa frequentissima, comprava la droga al figlio, pur di non vederlo soffrire. Era un gesto d’amore, ma era un gesto sbagliato. Molti genitori hanno bisogno di essere accompagnati da qualcuno che ti sappia dire le azioni da intraprendere e quelle da non compiere.
La chiave è quindi agire sulle famiglie per curare i tossicodipendenti?
Sì, per me questo libro forse viene ancora prima del lavoro sui ragazzi o della prevenzione nelle scuole. Se si lavora sulla famiglia e sugli errori e i disagi che esistono in essa, forse si arriva ancor più in anticipo a evitare il dramma della tossicodipendenza. Quello che emerge è una crisi più generale del sistema familiare, al di là del maggiore o minor benessere.
Alcuni le hanno detto che avrebbero preferito vedere i figli morire piuttosto che continuare a scoprirli schiavi della droga.
Lo dicono tutti in realtà, perché quello che vedi non è tuo figlio, ma un morto che cammina. È straziante pronunciare questa frase, ma sai che la prossima volta potrebbe essere l’ultima, e non lo vuoi ammettere. Spesso non si interviene perché si sceglie di ignorare il problema. Da qui nasce la sottovalutazione dei piccoli segnali. Si pensa che sia colpa dell’adolescenza o di qualche compagnia sbagliata, che tutto passerà…
La soluzione reale qual è?
Chiedere aiuto. Rivolgersi alle associazioni. Ce ne sono tantissime. Solo quelle di riferimento della comunità di San Patrignano sono più di40. È importante che i genitori si mostrino uniti, perché il tossicodipendente si rivolge sempre all’elemento debole della famiglia. A volte succede che i genitori buttino fuori casa i figli e loro vadano dai nonni. Inoltre bisogna lavorare in rete anche con le forze dell’ordine.
Quanto ha lavorato per scrivere il libro?
L’esperienza è cominciata nel 2015, quando sono entrata in relazione la prima volta con San Patrignano, esperienza che continua, anche con altre comunità, ad esempio con “Il Ponte” di Civitavecchia. Ho preso contatto con le diverse associazioni distribuite sul territorio, a cominciare dall’ANGLAD di Roma, presieduta da Paolo De Laura.
E dopo questo?
De Laura mi ha invitata a partecipare alla prima riunione con i genitori, con i quali ormai mi vedo e sento regolarmente. Ho cominciato, in silenzio, ad ascoltare le loro dinamiche, quando il gruppo si riunisce e dialoga. Ho partecipato anche agli incontri con i ragazzi, per capire cosa accada prima di entrare in comunità. Ho visitato realtà in tutta Italia e chi ha voluto mi ha raccontato la sua storia.
Dopo anni di inchieste è arrivata alla conclusione che “una canna può essere una porta d’accesso”. Qual è la sua posizione sulle droghe leggere?
Da un punto di vista medico non c’è differenza tra droghe leggere e pesanti. La droga è droga. E la marijuana è droga dal momento che provoca una alterazione del sistema nervoso centrale. Gli stessi ex tossicodipendenti ti dicono che una canna non è una porta di accesso, è già l’ingresso alla droga. È una sostanza stupefacente, modifica il sistema nervoso centrale, ha effetti sui neuroni e sulla corteccia cerebrale, rende pericolosi nelle tre ore successive all’assunzione se ci si mette alla guida, incide sulla memoria e può far emergere tendenze bipolari latenti. Oltretutto, non che la marijuana di una volta fosse migliore, ma quella in vendita adesso ha effetti maggiori, spesso è lavorata con sostanze sintetiche, o addirittura intinta nell’eroina.
Ma c’è chi pensa che liberalizzare significherebbe riportare nell’alveo della legalità questo mercato…
Chi parla di legalizzazione sostiene che si potrebbero tagliare le gambe alle mafie, ma non specifica mai che la legalizzazione interesserebbe gli adulti e non i minorenni che sono i maggiori consumatori, basta pensare che il 34% degli studenti delle scuole superiori fa uso di droghe, soprattutto di cannabis. Inoltre, lo spacciatore continuerebbe a esserci e a fare concorrenza allo Stato sui prezzi e sull’effetto stupefacente di quanto vende. Ovviamente – e questo lo ribadisco sempre - non è che con una canna si diventi necessariamente tossicodipendenti, ma tutti i tossicodipendenti hanno cominciato con una semplice canna.