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Un caso penale di un condannato a morte pendente di fronte ad un tribunale della Georgia negli Stati Uniti, forse, potrebbe essere utile per farci ragionare su cosa voglia dire un processo infinito e quali siano le conseguenze reali di una tale situazione oggi dai più indicata come forma più alta di giustizia e di giusto processo che, per essere giusto, deve impedire che il colpevole sfugga al giusto castigo.
È proprio così? Il caso di cui ci occupiamo, penso che valga più di tanti convegni, prese di posizione e comunicati di varie associazioni politiche e professionali le quali, in tema di prescrizione, non hanno mancato di far sentire la loro voce. La vicenda riguarda Timothy Foster riconosciuto colpevole di un omicidio commesso il giorno 28 agosto 1986. Il fatto reato, certamente odioso, riguardava un’anziana aggredita in casa e strangolata al fine di rapina. Timothy Foster reo confesso è, al contrario della vittima, un americano di colore. Fu catturato, quasi subito dopo i fatti, processato e condannato a morte dal tribunale locale della Georgia. Sentenza confermata dalla Corte Suprema dello Stato. La sentenza è del 1988. Da allora si sono susseguiti i vari ricorsi per habeas corpus e si è giunti al 23 maggio 2016 allorquando, la Corte Suprema degli Stati Uniti ha annullato la condanna a morte per violazione del diritto antidiscriminatorio.
Infatti la difesa di fronte alla Corte di Washington ha esibito un appunto del rappresentante della pubblica accusa che aveva scelto i giurati del processo di primo grado nel lontano 1988 in base al colore della pelle e sui nomi di quelli scartati vi era scritto che erano di colore quindi da eliminare. In data 13 maggio 2019, in sede di rinvio, viene richiesta l’archiviazione del caso di fronte a un nuovo giudice ma la pubblica accusa si oppone e il giudice si riserva di decidere. Decisione a tutt’oggi non conosciuta. Nel primo processo la giuria era di soli bianchi. Che dire ? Il condannato a morte è rinchiuso nel braccio della morte da 32 anni. Chi ha una certa età non potrà non ricordare il caso Chessman ucciso nella camera a gas di San Quintino il 2 maggio 1960. Chessman, divenuto nel frattempo un noto scrittore, fu al centro di un caso mediatico, si direbbe oggi, e, buona parte dell’opinione pubblica mondiale, artisti ed intellettuali, chiedevano al governatore della California un provvedimento di clemenza, sostenendo, fra l’altro, che, essendo stato il Chessman arrestato nel gennaio del 1948 era rimasto nel braccio della morte per 12 anni e, tale pena, era di per sé inumana e degradante e quindi meritevole di grazia per solo questo motivo. Mai, quelli che allora scendevano in piazza per il condannato avrebbero pensato che sessant’anni dopo, 32 anni di permanenza nel braccio della morte, sarebbero passati inosservati.
Come è cambiato il mondo! Si pensi che l’esecuzione, di cui si è parlato, fu più volte rinviata anche all’ultimo minuto. In un caso, il 19 febbraio 1960, fu rinviata perché allora era in programma un viaggio di Eisenhower Presidente degli Stati Uniti, in Sudamerica e si temevano tumulti popolari. Oggi di Foster nessuno parla. Anzi il popolo, a gran voce, chiede il processo eterno. Angelo Panebianco, in un editoriale sul Corriere della Sera ricorda che, in un certo senso, l’abolizione della prescrizione è quanto di più vicino ci sia alla introduzione della pena di morte: una morte fisica e una morte civile. Come erano belli i tempi in cui si lodava la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo ! Nel celebre caso Soering del 2 luglio 1989, la Corte negava l’estradizione di un detenuto verso gli Stati Uniti per il solo fatto che, pur avendo gli Stati Uniti assicurato che la condanna a morte non sarebbe stata eseguita, sarebbe stato, comunque, rinchiuso nel braccio della morte del penitenziario della Virginia in attesa della pronuncia definitiva.
Pronuncia che avrebbe potuto tardare anche 6 anni, periodo medio di permanenza del condannato nel braccio della morte. Tale permanenza, considerata lunga, avrebbe esposto l’estradato a un trattamento disumano e degradante in violazione dell’articolo 3 della Convenzione per il solo fatto di risiedere a stretto contatto con gli altri condannati e veder vivere l’angoscia dell’ultimo giorno del condannato prelevato per essere condotto all’esecuzione. Ed oggi ? Oggi lo spirito dei tempi invoca il principio di diritto «butta via la chiave». Il caso segnalato ricorda a tutti quali possano essere gli effetti reali dei processi infiniti. Se negli Stati Uniti, patria della democrazia e dell’efficienza tecnologica, accade che un condannato a morte sia sotto processo da trent’anni, cosa potrà mai capitare in Italia con l’enorme arretrato giudiziario e la difficoltà ad introdurre non l’intelligenza artificiale nel processo che da noi è fantascienza ma anche solo la digitalizzazione della pubblica amministrazione? Infine: è malinconico ricordare il Beccaria? Sì certamente. In tempi come questi, tuttavia, ci sia almeno concesso di essere malinconici: «Quanto la pena sarà più pronta e più vicina al delitto commesso, sarà tanto più giusta e tanto più utile. Dico più giusta perché risparmia al reo gli inutili e fieri tormenti dell’incertezza che crescono con il vigore dell’immaginazione e con il sentimento della propria debolezza».