Riportiamo alcuni brani dell’intervento del consigliere del Csm Piergiorgio Morosini al convegno organizzato dall’associazione Vittorio Bachelet dal tema “Giustizia ed esecuzione della pena: luci e ombre di una legislatura”.

LA SVOLTA DELLA “TORREGIANI”

C’è voluta una “scudisciata etica” prima ancora che giuridica, come quella della Cedu con il caso Torreggiani, per aprire gli occhi sulla emergenza carceraria italiana. Per capire la distanza fra il “dire” della legge Gozzini e l’essere del carcere. Per comprendere quanto c’è in noi della ideologia del “buttare le chiavi”; del “punire” uguale “sorvegliare”, o meglio, “neutralizzare”. Dove per “noi” si intende non solo la politica ma anche la magistratura e la società. Dunque, il monito della Cedu richiedeva un intervento strutturale. Compito niente affatto agevole per il Parlamento, date due questione fra loro collegate. Da una parte, l’assetto normativo dell’ordinamento penitenziario nel 2013, che a partire dagli anni novanta aveva registrato il progressivo smantellamento della legge Gozzini. Dall’altra le resistenze culturali a riconoscere alla dignità umana il ruolo di levatrice di un processo di riforma, in grado di tenere insieme un concetto forte di legalità della pena e una visione deideologizzata e laica del reinserimento sociale.

SOVRAFFOLLAMENTO E “TOLLERANZA ZERO”

L’idea del carcere come luogo di mera neutralizzazione ( non solo per mafiosi ed evasori) ha fatto breccia da tempo. Una idea collegata anche a certe scelte di penalità da “tolleranza zero” come la legge Bossi-Fini sull’immigrazione, la legge Fini- Giovanardi sulle droghe o la legge ex Cirielli sulla recidiva. Scelte che di fatto hanno determinato il sovraffollamento del carcere. Così si sono erosi gli istituti più rilevanti dell’ordinamento penitenziario, dando vita a una miriade di regimi speciali, in ragione del tipo di autore, identificato unicamente sulla base del reato oggetto della condanna e della recidiva. E quella idea progressivamente ha finito per erodere il nostro welfare penale. Meno personale specializzato nella case circondariali, nella polizia penitenziaria, nelle strutture educative e sanitarie. E poi svuotamento degli uffici di esecuzione penale esterna.

TRA DEMAGOGIA E OPPORTUNISMO

La difficoltà di invertire la rotta con un intervento strutturale aveva anche ragioni più profonde. Demagogie e opportunismi da tempo condizionano il confronto sui temi quali il ruolo delle vittime, le misure cautelari, la penalizzazione e la funzione della pena. E questo rende ancora più ardua quella individuazione di valori condivisi su cui edificare il nuovo e coerente impianto dell’esecuzione penale. Come su altri versanti della giustizia, il contesto sociale pluralistico e multiculturale, unito a un quadro politico frammentario, espone i proponenti di ogni iniziativa di riforma a costi alti in termini di consenso elettorale. Eppure, dopo il caso della sentenza Torreggiani, Parlamento e ministero della Giustizia hanno mostrato di avere coraggio, puntato all’idea del carcere come estrema ratio, nonostante qualche sbavatura ( es. con le pene per i furti).

UN NUOVO APPROCCIO

Per la verità la Corte costituzionale, con alcune pronunce in tema di custodia cautelare, e la magistratura di sorveglianza ( ordinanze sulla legittimità costituzionale in tema di sospensione della pena per condannati destinati ad istituti sovraffollati), aveva preparato il terreno. Nello stesso orizzonte culturale si collocano gli interventi del legislatore del 2013 e del 2014 sulla liberazione anticipata speciale, sulla detenzione domiciliare e sui rimedi risarcitori ( ndr, il rimedio, anche pecuniario, in caso di trattamento disumano o degradante subito dal detenuto). In sostanza da quattro anni si sono dati concreti segnali di volontà di reimpostare il sistema dell’esecuzione penale sui principi di umanità e dignità della persona. Nella convinzione che il carcere che rinuncia ad educare non crea maggiore sicurezza ma alimenta rancori profondi che alla lunga generano devianza e radicalizzazione.

LA SVOLTA DEL 2017

La riforma del 2017 vuole accentuare la possibilità di accedere a pene extramurarie, anche diminuendo i tempi di decisione della magistratura. Affiancando però a queste misure alternative una maggiore responsabilizzazione del condannato. Sulla riforma approvata dal Consiglio dei ministri del 22 dicembre scorso, il Csm formulerà il suo parere. Con la riforma viene potenziata la discrezionalità della magistratura di sorveglianza che viene portata al centro dal sistema. Ne sono un esempio le scelte sulla revisione dei presupposti di accesso alle misure alternative alla detenzione con riferimento ai limiti di pena ed ai presupposti soggettivi ( eliminazione degli automatismi e delle preclusioni per i recidivi o autori di particolari reati secondo la legge ex Cirielli); la semplificazione del- le procedure anche con la previsione del contraddittorio differito ed eventuale, la previsione di attività di giustizia riparativa quale momento qualificante del percorso di recupero sociale che coinvolge anche la vittima del reato; la riforma dell’assistenza sanitaria in ambito penitenziario che ha potenziato l’assistenza psichiatrica; il rafforzamento dei sistemi giurisdizionali di tutela dei diritti dei carcerati in capo al magistrato di sorveglianza.

IL NUOVO RUOLO DEL MAGISTRATO DI SORVEGLIANZA

Le novità introdotte dalla riforma del 2017 aumentano le esigenze di prossimità del magistrato di sorveglianza al carcere. Situazione questa che era stata ridimensionata dall’assetto normativo delineatosi in questi anni, con tutti le preclusioni e gli automatismi in negativo. Anche le semplificazioni previste su alcune autorizzazioni per quanto riguarda le telefonate e le visite mediche, anche specialistiche, presuppongo la conoscenza diretta da parte del magistrato di sorveglianza della condizione di ciascun detenuto. Più aumenta la discrezionalità del magistrato, maggiore è l’esigenza di raccogliere elementi di conoscenza dagli assistenti sociali e dagli educatori operanti in carcere. Sulla necessaria riorganizzazione della magistratura di sorveglianza che ne deriva, sta lavorando apposita “Commissione mista” istituita presso il Csm. Si auspica che la Scuola superiore della magistratura offra una formazione robusta che coinvolga anche i pm che saranno essi stessi maggiormente coinvolti nell’esecuzione penale: si pensa ad iniziative di formazione che coinvolgano assieme giudici e pubblici ministeri sul tema dell’esecuzione della pena. Le novità impongono insomma un impegno di sistema che richiede un approccio di diversi attori istituzionali: strutture pubbliche, polizia penitenziaria, assistenti sociali. In questo quadro è assai importante che da qualche anno si sia superato il divieto per i Mot ( magistrati ordinari in tirocinio, gli ex uditori giudiziari, ndr) di ricoprire come primo incarico il ruolo di magistrato di sorveglianza. Si tratta di un imprintig professionale molto formativo, certamente lontano dal modello di magistrato burocratico- aziendalista che rischia di accreditarsi anche per via della miscela esplosiva fra consistenza del carico di lavoro ed un assetto ordinamentale che sta alimentando ossessive forme di carrierismo. Con il rischio di contribuire all’inaridirsi di una professione che deve comunque mantenere una impronta ideale. La giurisdizione di sorveglianza, per le sue caratteristiche, resta un modello da cui ripartire. L’idea di chi crede che il processo non sia mai una pratica burocratica, ma sia il luogo della dignità della persona. Non è un retaggio del passato. È la cifra della nostra civiltà. Soprattutto quando sono in gioco gli ultimi.

IL RAPPORTO CON L’ESTERNO

Questa riforma dell’esecuzione penale cambia il carcere. Cambia il modo di concepire il carcere con il mondo esterno. Diventano importanti i contatti con il “fuori”. Ma per esserlo davvero dobbiamo cambiare lo sguardo. Dobbiamo entrare in sintonia con l’elaborazione culturale alla base delle novità. Una elaborazione preziosa frutto di un lungo confronto fra giuristi, operatori penitenziari, professori, rappresentanti di associazioni e ministri di culto. Molti di loro sono impegnati quotidianamente nella società per dare corpo all’uguaglianza e per migliorare la qualità della nostra democrazia. Che dimostra come nel nostro Paese, pur tra tanti problemi quotidiano, vi siano ancora tante risorse ideali, istituzionali e professionali su cui contare.

CONCLUSIONI

La giustizia è un cantiere aperto a tante istanze che riguardano oltre la mera applicazione delle norme, la dignità della persona, la solidarietà, l’autodeterminazione. Questi elementi vanno continuamente alimentati nell’esercizio della giurisdizione dalla magistratura, nei circuiti della formazione, dell’associazione nazionale e negli organi di governo autonomo e devono avere un ruolo anche nelle scelte organizzative e di allocazione delle risorse.