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E se quella che chiamiamo crisi economica fosse solo il riflesso di un male oscuro, più profondo, del nostro stare al mondo e del disagio di fronte ai cambiamenti che avvengono intorno a noi, dalla globalizzazione alle applicazioni della tecnologia?
Questa sensazione è suscitata dalle idee di molti intellettuali europei, secondo i quali il diffuso malcontento che si registra nei Paesi più avanzati, e che prende per lo più la forma di populismi e nazionalismi, non corrisponderebbe alla reale condizione economica e sociale della maggioranza dei cittadini, anche di quelli più svantaggiati.
Colpisce nell’analisi di alcuni studiosi, soprattutto francesi, l’individuazione di un atteggiamento ostile al lavoro, al sacrificio e il desiderio sempre più impellente di giungere all’età della pensione, considerata come il momento tanto auspicato in cui finalmente raggiungere uno stato di felice appagamento.
Anche in Italia compaiono analisi simili. Cito, in particolare, il saggio di Luca Ricolfi, “La società signorile di massa”, in cui l’autore osserva che in Italia si registra il livello più alto di eredità attesa.
Insomma, sembra che le società moderne, soprattutto dell’Occidente ricco e soddisfatto, abbiano via via perduto una volontà di potenza, un dinamismo di sviluppo e di affermazione, sostituito da una fiacchezza consumistica e da una passiva attesa dell’età della pensione.
Forse la ragione principale che spiega questo fenomeno risiede in quella “classe compiaciuta” di cui parla Tyler Cowen, nel fatto che “pace e redditi elevati tendono a togliere alle persone l’irrequietezza”, proprio oggi che avremmo bisogno di un forte dinamismo per fronteggiare l’evoluzione tecnologica.
Questa “classe compiaciuta” si ritrova impegnata a rinviare il cambiamento e a mettersi di traverso su tutte le trasformazioni, alla ricerca di un riscatto che la metta al sicuro rispetto a una potenziale disgregazione.
Così si spiegano quelle ribellioni sociali, simili a scoppi improvvisi quanto sproporzionati di collera e di rancore, che finiscono per ostacolare e paralizzare ogni tentativo volto a liberare le energie disponibili rafforzando la nostra economia e la nostra civiltà, in un mondo in cui la volontà di potenza e l’imperialismo degli Stati vige più che mai.
Forse ha ragione quel grande intellettuale europeo, che risponde al nome di Benedetto XVI, quando ha ricordato, anche di recente, che l’origine della nostra crisi, del nostro indebolimento, della nostra resa va ricercata soprattutto in una crisi di natura antropologica.
Forse la mancanza di senso da dare alla nostra vita, il travisamento dei nostri desideri più profondi che si esauriscono nel consumo e in falsi idoli, ci rende così penosa la vita, il lavoro, l’attesa del futuro.
Nel Novecento le ideologie riempivano questo vuoto, in un modo altrettanto alienante e pericoloso. Per questo non me la prenderei eccessivamente con i social, che sono un’altra forma di ideologia, forse più repentina e bruciante, ma pur sempre una forma di allontanamento dalla realtà e dalla verità.
Forse le fedi ideologiche permettevano anche forme comunitarie più ricche di umanità, mentre oggi i social chiudono in se stessi e in piccole comunità virtuali.
Tuttavia, il risultato finale è più o meno simile, impedendo un’autentica crescita culturale spirituale che forse – dobbiamo ammetterlo – è riservata in ogni epoca storica a pochi uomini illuminati e giusti.
In fondo, la scommessa della democrazia è tutta qui. Una democrazia salda e forte, anche nei momenti più difficili, sopravvive solo se è sostenuta di cittadini emancipati e responsabili.
Lo sapeva benissimo Machiavelli e, nei giorni nostri, anche Aldo Moro.