La situazione mediorientale, caratterizzata anche dal conflitto in Libano, è esplosiva. Ogni giorno che passa i problemi aumentano con ripercussioni che ora riguardano direttamente le Nazioni Unite. Il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, non nutre nessuna considerazione per l’Onu e il contingente Unifil, operante sulla Blu line, è sotto il fuoco incrociato dell’esercito d’Israele e di Hezbollah. E comunque, in tale contesto, «gli Stati democratici non sparano sulle truppe delle Nazioni Unite», come evidenzia Vittorio Emanuele Parsi, ordinario di Relazioni internazionali nell’Università Cattolica di Milano.

Professor Parsi, Israele ha mostrato totale disinteresse, per non dire disprezzo, verso l’Onu. Dove vuole arrivare?

Assistiamo alla conseguenza logica con la definizione di Guterres come “persona non grata” e con la definizione dell’Assemblea dell’Onu come una palude antisemita. C’è una radicalizzazione del rapporto tra Israele e le Nazioni Unite. Del resto è dal 1967 che Israele non ottempera alle risoluzioni che chiedevano l’uscita dalla Cisgiordania occupata. Non mi sembra così strano, quindi, l’atteggiamento assunto in questi giorni. Il livello dello scontro si è alzato ulteriormente. Gli Stati democratici non sparano sulle truppe delle Nazioni Unite. Queste cose le fanno le bande paramilitari serbe, i ribelli del Katanga, non certo l’esercito di uno Stato che vuole essere democratico.

Sulla Blue Line si cerca l’incidente per indurre la missione Unifil a spostarsi o peggio a lasciare il Libano?

Penso che ci sia una ricerca dell’incidente o quantomeno l’assunzione di un rischio calcolato in cui l’incidente è contemplato. Abbiamo già visto i rischi calcolati di Israele in altri teatri in questo ultimo anno. L’idea sembra quella di attuare una minaccia che non ha nulla a che fare con la leadership di uno Stato.

La scarsa considerazione di Israele verso le Nazioni Unite, con il Segretario generale, Antonio Guterres, definito “persona non grata”, rappresenta un pericoloso precedente?

Secondo me, sì. Si lancia un segnale molto negativo soprattutto per le democrazie occidentali, che fanno della difesa delle istituzioni internazionali un punto imprescindibile. Il comportamento di Israele segna una rottura. Su questo, va detto con chiarezza, non ci possono essere giustificazioni di sorta da invocare e che possano consentire il sostegno ad azioni che delegittimano le istituzioni internazionali e l’Onu. In una opposizione tra Israele e Onu la scelta per la democrazia occidentale è obbligata: stare a fianco delle Nazioni Unite.

Israele alla fine invaderà il Libano?

L’ha già fatto. Le truppe israeliane stanno già combattendo in Libano. Se il progetto di Netanyahu è ristrutturare lo spazio politico libanese con la forza, non basterà l’invasione fino al fiume Litani. Sarà qualcosa di molto simile alla campagna terribile del 1982, piuttosto che alla campagna del 2006, a meno che gli Stati Uniti e gli altri Paesi occidentali non siano in grado di fare pressione su Israele. Mi pare che le capacità siano ridotte al minimo, se non si attua quello che ha chiesto Macron, vale a dire la sospensione immediata degli aiuti militari a Israele. Non c'è altro modo di fare pressione.

Gli Stati Uniti sono troppo presi dalla campagna elettorale per dare dei segnali diversi, non solo di accondiscendenza verso Israele?

Negli Stati Uniti c’è un presidente uscente, Joe Biden, che non è ricandidato, per cui sussiste una doppia debolezza. L'ultimo presidente degli Stati Uniti che seppe mostrare fermezza nei confronti di Netanyahu fu Barack Obama. Oltre ai fatti del 7 ottobre, all’origine di questa fase del conflitto, si dimentica sempre la questione irrisolta palestinese con l’occupazione, in spregio del diritto internazionale, di tutta la Cisgiordania da parte di Israele. Inoltre, non va accantonata la questione iraniana. Fino a quando era vigente l’accordo internazionale sul nucleare iraniano, firmato da Obama, a cui l’Iran ottemperava, non c’è stata una segnalazione di violazione degli impegni presi. La situazione era sotto controllo, l’Iran non era diventato una democrazia o un regime liberale, tutt’altro, ma era agganciato al sistema e si poteva tenere sotto controllo l’arricchimento dell’uranio. Quando Trump ha rinunciato a questo accordo, con la fortissima pressione di Netanyahu, oltre che dei sauditi, si è scelto che l’unico modo di regolare le questioni in Medio Oriente fosse quello della forza. I risultati sono sotto gli occhi di tutti.

L’ennesima crisi del Libano dimostra che il “Paese dei cedri” è un campo di battaglia da cui derivano tante sventure per il Medio Oriente?

Avere come vicini Israele, la Siria, ed essere sotto l’influenza dell’Iran non agevola e rende tutto più difficile. Per Hezbollah la presenza della forza militare, con funzione innanzitutto di ricatto all’interno del Paese, è stata sempre giustificata con l’idea di dover resistere di fronte a Israele. Per Hezbollah farsi disarmare diventa far venire meno lo strumento con il quale si esercita pressione sul sistema politico libanese. Hezbollah è in un cul- de- sac, così come Israele con le politiche di Netanyahu. Quando tutti sono senza vie d’uscita è molto difficile che si arrivi a uno scenario non apocalittico. Il Libano patisce la mancanza di capacità nel risolvere le questioni interne e il condizionamento esterno, che dura in maniera violenta da quasi sessant’anni.

Il tavolo dei cosiddetti “liberatori”, come sono stati ribattezzati i cristiani ex falangisti di Samir Geagea e i sunniti, può riaprire in Libano una nuova fase politica o è l’ennesimo tentativo velleitario di aggiustare le cose?

Il partito di Geagea è riuscito a raccogliere una parte consistente del voto cristiano, cosa che prima era riuscita al generale Aoun, attraverso l’alleanza con Hezbollah. La questione della gestione del rapporto con gli sciiti, che rappresentano comunque la minoranza più cospicua all’interno del Libano, e che sono legati, con le buone e con le cattive, innanzitutto a Hezbollah, resta. Va bene superare Hezbollah, ma si pone il tema dell’inclusione degli sciiti, che rappresentano una componente importante nel sud del Paese e nella valle della Bekaa. La situazione è estremamente complicata e andrebbero fermate le interferenze esterne, di Teheran, di Tel Aviv, di Damasco, senza tornare alla guerra civile.